Contro l’indulto. Lo spazio della vita

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C’è stato un giorno illuminante, per me, per fare definitivamente i conti con ciò che significa l’indulto di un toro nell’arena e quel giorno è arrivato a Sevilla.

Non era il 2011 e non c’era Arrojado, nell’arena, assieme a Manzanares, anche perché quel giorno io ero a Roma. Non fu neppure nel 2016 quando Cobradiezmos fu salvato da Escribano perché quel giorno io ero a Atene. E non è stato neppure l’altro ieri con Orgullito nella muleta del Juli, anche perché il mio biglietto nel tendido 6 avevo dovuto lasciarlo all’improvviso mentre me ne tornavo a Roma e i miei amici mi inviavano messaggi commossi dal delirio della Maestranza e io li invidiavo dell’invidia buona che si prova verso gli amici che sono ai tori nei giorni in cui i tori ci fanno sognare.

Ma non è stato in nessuno dei tre giorni che molti considerano storia della Maestranza anni Duemila che io ho avuto la mia personale illuminazione su ciò che rappresenta l’indulto. E non è stato neppure in altre giornate di bellezza o tristezza sugli spalti della plaza de toros più bella del mondo, dove il bianco e l’ocra delle mura settecentesche si fonde in un quadro da estasi fra la terra di albero e il cielo blu andaluso. No. Io l’indulto l’ho capito a Sevilla, ma fuori dalla plaza de toros.

Per carità, non che abbia assistito a pochi indulti nella mia vita di aficionado. Uno fu per me epocale, altri furono belli ma sostanzialmente poco appassionanti, altri infine da dimenticare – come il pomeriggio che El Fandi indultò un toro dopo una corrida priva di qualsiasi passione a Sanlúcar de Barrameda, ma l’animale aveva seguito costantemente il pico della muleta che il mancato sciatore della Sierra Nevada gli metteva davanti al muso e questo era bastato a tutti, pubblico, torero, ganadero e presidente per far esplodere la festa prima di rifugiarsi in massa sulle rive del Guadalquivir alla sua foce a mangiare le migliori telline del mondo. E tuttavia io l’indulto del toro, la sua salvezza democraticamente scelta dal pubblico di una plaza de toros, non l’ho capito vedendo i tori ma seguendo i pasos della Semana Santa di Sevilla.

Fu un processo di lenta comprensione che culminò un Sabato Santo di cinque anni fa davanti al paso più strano di Sevilla, vanto della Confraternita del Santo Entierro, immagine antichissima che tutti i sivigliani soprannominano La Canina. Non mi era chiaro, all’inizio, cosa stessi provando. Né mi era chiaro in alcun modo che ciò che vedevo avesse a che fare con l’indulto del toro nell’arena. Poi all’improvviso tutto mi apparve semplice, evidente, definitivo.

Nel 2013, anno in cui per la prima volta assistei all’intera Semana Santa di Sevilla cercando di coglierne il senso che finì per costituire il filo rosso di un lungo reportage, quel che mi apparve subito chiaro fu lo strettissimo parallelo fra i tori e i Misteri, i pasos che ogni giorno escono dalle chiese per compiere il loro percorso di vita e di morte. Il paso allegorico della Canina sarebbe arrivato di sabato e per ora cercavo soltanto di scoprire in maniera chiara cosa avesse sentito Francesco Rosi quando nel suo Il momento della verità aveva esaltato una specie di comunanza fra Semana Santa e tori. Mentre scrivevo quotidianamente e mi appuntavo note su ogni chiesa e ogni confraternita mi parve evidente che innumerevoli sono gli aspetti capaci di avvicinare le cosiddette processioni religiose alla corsa del toro nell’arena. Cercavo di enumerarli. La massa di gente che attende, innanzitutto. Un’atmosfera religiosa e pagana, una ritualità estetizzante, i venditori di almendras e picos, i bicchieri pieni di ghiaccio oltre al gin e al whisky, i venditori di cuscini o seggiolette portatili, e soprattutto l’attesa, l’attesa piena di fede, la certezza che qualcosa accadrà, qualcosa ci toccherà, qualcosa ci trasformerà per sempre. Dopo quest’attesa, lunga o breve che essa sia, la porta si apre e il mistero della vita si prepara a uscire – sia da una chiesa che nella plaza de toros. Si tratta infatti di un mistero che non allontana affatto la divinità dal toro – e non mi si consideri sacrilego. Quando infatti dal buio del toril, selvaggio scattante o perplesso, appare il toro, noi sentiamo che inizia un rito unico e ci pare che dalla porta in legno rosso quasi venga a nascere, sputato alla vita che porta morte, l’animale sacro. Si tratta di un parto. Parto di un animale vergine che si getta nell’arena e nasce alla vita e poiché nasce alla vita è destinato alla morte. Noi sappiamo tutto questo. Sappiamo che nei venti minuti della corrida si consumerà la vita tragica dell’animale e durante i tre atti della tragedia noi seguiremo la sua evoluzione così simile a quella di tutti noi, esseri viventi, nati alla vita e per questo destinati alla morte. Sappiamo che il toro ci apparirà prima levantado, ossia appena nato o appena sveglio, fortissimo ma ingenuo e inconsapevole. Sappiamo che il dolore del ferro che dal cavallo gli viene inferto lo spingerà a una improvvisa maturazione. Il toro diventa adulto. Soffrendo conosce – come dicevano i greci – e dunque diventa pronto a combattere il suo destino di morte. Parado, ossia circospetto, esitante, il toro è pronto a rallegrarsi davanti alle piroette dei banderilleros, sotto alle banderillas che non danno se non prurito, perché il vero dolore si è ormai capito cosa sia, come per tutti noi nelle nostre vite di perdite e lutti e tuttavia pronti ancora a danzare e ancora a fallire. La danza sfuggente delle banderillas spinge infine l’animale a concentrarsi per entrare nella sua senilità. Aplomado, ossia appesantito ma anche sicuro, il toro, vecchio adesso, ma sapiente, aggressivo e non più pronto a sprecare energie se non per uccidere, appare come la perfezione della vita al suo culmine, quando l’essere umano lotta contro la sua fine, centellina gli sforzi, sa come destreggiarsi fra le asprezze delle contingenze e lotta per la vita che di sé ha creato.

Molto simile mi apparve subito il percorso dei pasos per le vie strette, anguste, irte di ostacoli che ogni confraternita sceglie per dar vita ai propri Misteri. Dall’iniziale parto, al dolore della fatica, al rallegrarsi della musica, fino agli ultimi sacri movimenti prima di rientrare nella chiesa. Quando il paso, grande o piccolo che sia, esce a fatica dal portone della Chiesa che lo ospita, tutto infatti ha a che fare con un parto. Chi è in attesa, ipnotizzato dal brillio degli ori o degli argenti, piange o si esalta. Chi osserva le bordature dei tessuti, i volti intagliati, e assapora il profumo d’incenso e di cera fusa mentre aromi floreali si mescolano a petali che vengono giù dalle case, entra in uno stato di trance emotivo che è il perfetto preludio a quel che sta accadendo. La statua del Cristo morente, morto, tradito, condannato, come la statua della Vergine addolorata, pietosa, sfiancata, beata o speranzosa, nel momento in cui escono dalla loro chiesa, partoriti dalla spinta dei costaleros che sotto al palio lavorano nell’ombra, vengono alla vita per morire. E fu proprio questo a colpirmi come il punto di contatto più puro fra la Semana Santa e i tori. Perché la resurrezione che si celebra con la Semana Santa ha questo di grande, ossia che non ha nulla di strettamente religioso per chi non intenda la fede cattolica o se ne tenga alla larga o semplicemente se ne disinteressi. La resurrezione che si esalta con il cammino dei pasos in città è tutta corporea, tutta umana, tutta terrena. Cristi e Vergini escono dal buio delle loro chiese e vivono, realmente vivono lo splendore della vita intera nell’arco delle ore della processione, tutta la loro vita rappresentata come quella del toro nell’arena. Dalla freschezza della nascita alla comprensione del dolore, alla lotta per la vita, fino al rientro nel buio della chiesa. Ora, anche chi è strettamente cattolico e crede alla resurrezione in quanto tale, durante la processione del paso esalta una resurrezione corporea, vitale, fatta della vita che è questa vita, fra almendras e gin tonic, fra preghiere e canti flamenchi (le celebri saetas cantate dalle finestre delle case lungo cui passano i Misteri) fra grida tutte umane (“Guapa, guapa” è invocata la più famosa fra le Vergini: la Macarena) e silenzi tutti umani. Il paso che percorre le strade di Sevilla, come il toro nell’arena, vive tutta la sua vita esaltante, una vita che finisce nella morte come ogni vita. Vita di un solo giorno per morire. Questa è la più pura delle resurrezioni. Perché anche la statua del Cristo e della Vergine , dopo un delirio di canti e di balli, deve rientrare nel lugubre buio chiesastico dove è destinata a perdere tutta la vita che ha mostrato nel suo umano, corporeo volteggiare e lottare per le vie della città.

Potreste credere che si tratti di elucubrazioni, sovrainterpretazioni, voli pindarici. Ma fu quel che io provai e sempre provo fra misteri divini e misteri taurini. E sono convinto che non si tratti affatto di un’esperienza estetica personale. Tanto che se davvero insistete a non darmi retta sarò costretto a pensare una cosa sola. O non avete mai visto un paso per le strade di Sevilla o non avete mai assistito a una corrida.

Ma cosa c’entra tutto questo con l’indulto e con il Mistero della morte che si arrende, detto anche, con ironia tutta sivigliana, La Canina? Il fatto è che fin dalla prima volta in cui la vidi, mentre provavo strane sensazioni, non potei far altro che prendere atto di una cosa: si tratta di un’opera assolutamente unica e sui generis. Del tutto diversa da ogni altro Mistero della Semana Santa sivigliana. E perché? Iniziamo da qualche dato. La confraternita del Santo Entierro ne è giustamente orgogliosa visto che l’antichità del pezzo d’arte è assoluta. È il 1691 l’anno in cui Antonio Cardoso de Quirós la realizza, ma al secolo precedente bisogna risalire per l’idea della rappresentazione. Non mi dilungherò in dettagli da eruditi. Piuttosto osserviamola, la Canina. Né Cristo, né Vergine. Semplicemente uno scheletro capace di terrorizzare generazioni di bambini sivigliani. Uno scheletro seduto sul mondo che è una palla nera, un braccio a impugnare svogliatamente una lunga falce deposta in terra, l’altro braccio piegato sul ginocchio a reggere il capo appesantito dalla disperazione. Chi è questo scheletro se non la personificazione della morte, in un quadro allegorico? Una morte che infatti ci appare disperata perché la vita l’ha sconfitta. Una morte che si arrende di fronte alla forza del Cristo che risorge. Una morte battuta, umiliata, offesa. Una morte personificata. Dunque disperata proprio come un essere umano si dispererebbe. China e chiusa in se stessa, afflitta, priva della sua caratteristica vitalità, ossia la forza di imporsi sui viventi.

Ora, cosa racconta questo paso quando passa per le strade di Sevilla? Chiediamocelo con cura. Perché fu quel che mi domandai mentre lo osservavo fino a immaginare cosa rappresentasse spostandolo nella dimensione dello spazio taurino, per capire finalmente l’assurda contraddizione dell’indulto. Osserviamo la Canina. Lasciamo perdere le superstizioni che spingono taluni a incrociare le dita al suo passaggio. Lasciamo perdere le paure che spingono i padri a chiudere gli occhi dei figli. E lasciamo perdere le ironie che spingono a chiamarlo Canina per burlarsi della fame da cani (hambre canina appunto) che dovrebbe affliggere lo scheletro privo di carne. Lasciamo da parte ogni inutile vezzo e domandiamoci: cosa racconta il paso che più di ogni altro celebra la vittoria di Cristo e la sua resurrezione capace di umiliare la morte stessa? Dovete assistere al passaggio della Canina per rendervene conto. E dubito che qualcuno possa provare un’emozione diversa da quella che provai io la prima volta che lo vidi passare per le strade di Sevilla. Cupo, duro, allucinato, lontano e livido, il paso è il più lugubre e privo di vita fra tutti quelli che sfilino in città. Anzi, per la precisione, è l’unico paso che non esalti la vita. L’unico incapace di commuovere di esaltazione vitale. L’unico che induce molti a cambiar strada in cerca altrove di felicità. E il motivo apparentemente sfugge. Non sarebbe proprio questo il caso migliore per la nostra vitalità? Il caso della morte sconfitta, umiliata, annichilita, la morte che si arrende? Sì, è così, dovrebbe essere così. Eppure non ci sono dubbi: se avete visto trionfare il Cristo o la Vergine di qualsiasi altra hermandad, di fronte a questo non potrete che chinare il capo come lo si china di fronte a una processione mortuaria. È molto interessante del resto che l’altro paso della confraternita confermi perfettamente questa impressione. Il paso de la urna rappresenta infatti un Cristo morto, disteso e chiuso in una bara di vetro, una statua dunque priva di corporeità vitale, che non potrà in alcun modo prendere vita, nonostante grida, musica, sfilate, almendras, saetas e danze. Perché certo che la resurrezione, stando ai canoni religiosi, non è nel corpo di Cristo, come tutti sappiamo. E tuttavia l’esaltazione vitalistica della Semana Santa è interamente corporea come se la dimensione di Sevilla non fosse altro che la dimensione omerica, quella degli eroi corporei senza un aldilà, in cui solo questa vita ci è concessa, e solo in questa vita è possibile conquistarsi una specie di immortalità, un’immortalità che resta sempre tutta e soltanto terrena.

Mentre sfila il paso allegorico (a Sevilla assolutamente unico) in cui la morte è battuta fantasticamente o religiosamente; mentre sfila il corpo morto di Cristo, la cui anima ha ucciso la morte, vincendola, noi abbiamo la stranissima impressione di vedere l’unica vittoria impossibile e falsa, l’unico inganno, l’unico grido di vero dolore della Semana Santa sevillana. La morte è invincibile infatti. La morte non si arrende. La morte non si sconfigge come si sconfigge un essere umano. Sono cose che sappiamo bene tanto che non possiamo credere all’allegoria di una morte sconfitta e pensierosa, umiliata e disperata. No. Non possiamo crederci. Anzi, contemplare una simile stortura ci fa sentire tutta la nostra piccolezza. Laddove nel momento in cui osserviamo Cristi e Vergini ondeggiare al ritmo del passo che la confraternita ha preparato per loro (di qui il termine paso, peraltro: ossia dal passo, dall’andatura del palio), quando vediamo quei Misteri scintillare sotto il sole inondato dall’odore di azahar, noi sogniamo un’impossibile vittoria. Noi sentiamo che la nostra corporeità ha un senso. Noi viviamo l’unica vittoria possibile sulla morte.

Vincere in questo spazio terreno, corporeo, vitale, significa morire. Il Cristo tornerà nel suo sepolcro chiesastico, e la Vergine Macarena tornerà a passare l’anno dietro all’altare pieno di ori. Ma la loro vita è durata un giorno. Un giorno folle e unico. Talmente unico che noi ne siamo certi: quella è la vittoria. La morte li ha spezzati, sì, ma momentaneamente. Perché la loro vittoria sulla morte potremo celebrarla sempre, ogni anno prima di Pasqua, nel passaggio esaltato per le strade della città, quando torneranno in vita per andare ancora una volta alla morte. E così è per il toro. Il toro deve morire nell’arena. Il toro non può essere salvato. Il toro ci racconta la vittoria sulla morte solo quando va alla morte. Non quando evita la fine e finge di vincerla trasformandosi in bove da monta. Non quando ci inganna come fa il paso della Canina, fingendo che esista uno spazio, in questo spazio, in cui la morte scompare, si dissolve, finisce di esistere. Non quando crede di salvarsi – ah ignaro e tradito dalla sua ilusiòn – nell’indulto che lo rispedisce nei campi. No, la sua vittoria sulla morte il toro non la trova in uno spazio finto e menzognero. Né in quello spazio fisico che è il paradiso dell’allevamento in cui crede di tornare e dove esso vivrà ormai come un normale fantasma. Perché salvo e pieno di tutta la vita che la vita gli darà, il toro indultato diventa ridicolo. E la corrida perde tutta la sua forza redentrice.

Ora, non affrettiamoci. Non corriamo via. Guardiamo ancora attentamente il toro che esce morto dall’arena, magari applaudito o addirittura celebrato con il giro d’onore che spetta ai grandi tori. Mentre i muli lo trascinano nella vuelta al ruedo, l’animale ci appare come una gigantesca forza ancestrale che ci rappresenta perfettamente nella nostra battaglia contro la morte. Sappiamo che la sua testa verrà impagliata. Che il suo nome verrà inciso su una “lapide”, la mattonella che l’allevatore vorrà dedicargli e la targa metallica che racconterà la sua storia sotto alla testa uscita dal tassidermista. Nome, data di nascita, data di morte, torero a cui l’animale si è unito nell’ultima lotta e nell’ultima danza. Il toro glorioso, vissuto un giorno, capace nella sua folle rincorsa di far apparire la morte tanto necessaria quanto ridicola.

Osserviamo, invece, il toro che rientra nelle stalle vivo. È una grande emozione, nella maggior parte dei casi, non c’è dubbio. Perché il toro viene indultato dopo una bella corrida e noi tutti siamo in genere pieni di passione e riconoscenza per quel che abbiamo vissuto. Ma seguiamo l’animale nelle stalle. Scrutiamolo mentre l’adrenalina della lotta lo abbandona, quindi viene curato dalle ferite della lotta eppoi cerchiamolo negli allevamenti dove sarà libero, semental, stallone pronto a penetrare vacche e dare alla luce generazioni di tori che possano replicarne il carattere e la bellezza. Sì, siamo felici. Proviamo una sorta di tenerezza. Ma diciamocelo chiaro e tondo: ora il toro in un harem di vacche non ci esalta più, non ci spaventa più, non ci sembra più la belva che aspetta il giorno della sua corrida, l’animale furioso che il torero dovrà incontrare nel ballo di vita e di morte. No. Nulla di tutto questo. L’animale ci appare improvvisamente come un semplice bovino, un capo da riproduzione, un esemplare sicuramente degno di ammirazione ma spogliato del suo valore totemico, privo della sua maestosa vitalità, un semplice animale d’allevamento, a volte quasi goffo, quasi ridicolo.

Non aspetta più di morire per vivere, il toro indultato, ma vive per morire. La sua “vittoria” nell’arena (e si sottolineino le virgolette perché non esiste vittoria nella plaza de toros) è una vittoria che lo ha consegnato alla morte anziché alla vita, la vita sacra di tutti i tori morti nel combattimento, quei tori che ci hanno fatto sognare di un vitalismo folle e ci hanno fatto sentire che noi siamo immortali, che non possiamo morire, che non finiremo mai, proprio perché invece siamo noi quegli animali che appena nati sono consegnati alla fine. La Canina come il toro indultato ci presentano uno spazio di immortalità ideale, uno spazio irreale, uno spazio inesistente. La morte non si sconfigge con l’immortalità ideale, ma la si uccide con l’immortalità terrena, l’immortalità che sola è possibile in questo spazio terreno. Il toro solo morendo vince la morte. Se vive si sottomette alla legge della natura e ci mostra soltanto la mediocrità di questo spazio terreno da cui dobbiamo liberarci se vogliamo trovare uno spazio d’immortalità. Qui, in questa dimensione, il toro indultato, ormai triste animale da monta che ha finto di credersi immortale, ci ricorda soltanto che non c’è nulla da fare. Come la Canina di Sevilla, tanto cupa, fosca, falsa e morta che in pochi amano osservarla, pochi amano seguirla, pochi amano ballare insieme a lei.

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