Pamplona!

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Sempre dal libro A Pamplona con Ernest Hemingway, ecco un brano su quello che ogni mattino Pamplona continua a regalarci, una corsa tanto tradizionale quanto fraintesa e misconosciuta.

I tori, ogni giorno di un allevamento diverso, vengono scortati dai pastori la notte prima al corrales di Santo Domingo, in un percorso a piedi ribattezzato encierillo, e lì stazionano all’interno di recinti fino all’apertura dei cancelli il mattino seguente. La partenza è in salita, seguendo una strada che sembra un budello e che non presenta vie di fuga, perché il giorno prima sono state posizionate le barreras, alte palizzate di legno rinforzate da coperture metalliche, montate e smontate ogni giorno da un’équipe di quaranta falegnami, che chiudono tutte le uscite e servono a reggere i possibili urti dei tori, impendendo anche che l’animale venga preso da un irrefrenabile istinto di andarsene indisturbato a passeggiare per le vie della città. Non è il momento più pericoloso, ma quello in cui i tori sono più veloci e scattanti. Per due ragioni: una ovvia, sono meno stanchi. L’altra meno ovvia. Per la loro conformazione fanno meno sforzo a spingere in salita. I corridori, un misto di nativi, nonostante la vulgata sono pochi quelli non lucidissimi che sfidano la sorte, turisti anglosassoni arrivati in città per rivangare il mito di Hemingway e professionisti della corsa, gente che si allena tutto l’anno e che riconosci da piccole diavolerie, come il giornale arrotolato per misurare la distanza dalle corna del toro, aspettano un centinaio di metri più avanti, subito dopo una striscia rossa disegnata sull’asfalto che segna il punto oltre il quale non si può indietreggiare. Nell’attesa si rivolgono al santo, invocando protezione: “A San Fermín chiediamo/ poiché è il nostro patrono/ di guidarci nella corsa dei tori/ dandoci la sua benedizione”. Ognuno porta con sé i propri sensi di colpa. 

“Il punto più insidioso è il finale, prima dell’ingresso nell’arena”, mi racconta José. La chiamano la curva della telefónica, omaggio alla compagnia spagnola delle telecomunicazioni, un tempo pubblica e oggi privatizzata, che aveva la sede lì davanti. Dopo il lungo rettilineo di calle Estafeta la strada, in leggera discesa, curva a sinistra e si restringe per poter accedere alla Plaza de Toros, la terza più grande al mondo dopo Città del Messico e Madrid. Sempre la stessa dal lontano 1922. Se si ha la sfortuna di inciampare da quelle parti non resta molto altro da fare che pregare e posizionarsi in posizione fetale. L’ultimo a lasciarci le penne, proprio in quel tratto, fu nel 2009 Daniel Jimeno Romero, un ragazzo di ventisette anni della Comunità di Madrid brutalmente incornato dal toro Capuchino, innervosito per essere rimasto indietro e dunque isolato dal resto della mandria. Dicono che il pericolo maggiore venga proprio dai tori rezagados, quelli che si sfilano dal gruppo e smettono di correre. Circondato da decine di corridori Capuchino iniziò a colpire alla rinfusa. Ne fece le spese Daniel. Un corno sfortunatamente gli recise l’aorta e la vena cava, perforandogli il polmone. La macabra conta parla di quindici di persone ad aver perso la vita lungo il percorso in oltre un secolo. La prima, riportano le cronache ufficiali, risale al 1924, quando un muratore di ventidue anni dell’area intorno a Pamplona, Esteban Domeño Laborda, rimase mortalmente incornato sempre alla curva della telefonica. Hemingway ne raccontò l’episodio in Fiesta, prendendosi qualche licenza poetica nella descrizione del quadretto familiare. “Più tardi, quel giorno, sapemmo che l’uomo ucciso si chiamava Vicente Gironés ed era delle parti di Tafalla. L’indomani sul giornale leggemmo che aveva ventotto anni, un podere, una moglie e due bambini. Aveva continuato a venire alla fiesta tutti gli anni dopo essersi sposato”. 

Tecnicamente l’encierro non è altro che il trasferimento dei tori dal recinto dove sono stati portati la sera prima fino all’interno del corral, il recinto dell’arena, dove il pomeriggio si svolgerà la corrida. Ma la corsa con i tori è una “conquista” moderna. Non esiste dalla notte dei tem- pi. Quando ancora non c’erano i mezzi a motore i tori trainati a cavallo dai pastori venivano appositamente portati in piazza Castillo per essere ammirati. Da sempre considerato il buon retiro cittadino, el cuarto de estar, come lo chiamano i locali, la piazza fino alla metà dell’Ottocento era il luogo in cui si svolgevano le corride. Fu lì che nel 19 luglio del ‘36 si radunarono i volontari di Franco, pronti a marciare in direzione Madrid e a indirizzare la storia spagnola per oltre mezzo secolo. Non un atteggiamento sorprendente, per la verità, considerato che la Navarra nella sua storia ha sempre tenuto una linea politica tradizionalista, o carlista, fondata sul motto “Dios, Patria, Rey y Fueros”, e che durante il diciannovesimo secolo fu protagonista di tre guerre civili, l’ultima delle quali tra il 1872 e il 1876, contro il nuovo ordine costituzionale. 

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