Budd Boetticher – Un torero sul set

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Budd Boetticher (immagine presa dal web)

“Mi chiamo John Ford e faccio western”: Budd Boetticher  (Chicago, 29 luglio 1916 – Ramona, 29 novembre 2001) avrebbe potuto far sue le celebri parole di John Ford. Certo i suoi film godevano almeno inizialmente di budget meno importanti, a John Wayne avrebbe preferito l’altrettanto solido Randolph Scott e le rocce vulcaniche di Long Pine – California sarebbero diventate il teatro ideale della sua personalissima epopea western in luogo della Monument Valley: invece il nostro, capace nel tempo di dare lezioni a mostri sacri come Eastwood, Peckinpah e Don Siegel, tenuto in singolare considerazione dalla critica “colta” dell’epoca, André Bazin  in testa, autore di opere esemplari per asciuttezza e rigore, si dichiarò per tutta la vita torero e torero lo fu per davvero e come tale affrontò i suoi anni più duri.

Boetticher giunse in Messico giovanissimo al termine degli studi al college lasciandosi alle spalle una promettente carriera da professionista nel football americano, non sappiamo quanto fu casuale il suo incontro con la tauromachia ma le corride cui assistette cambiarono il suo destino al punto di spingerlo a calcare le arene; come vedremo un resoconto di quei primi passi sarà testimoniato esclusivamente grazie alla finzione filmica, ma è come conseguenza di questi iniziali tentativi di fronte al toro se venne in contatto con Rouben Mamoulian che lo volle al suo fianco in qualità di consulente durante le riprese di “Sangue e arena”. Evidentemente l’organizzazione del set si confaceva alla visione d’insieme così indispensabile all’arte tauromachica e, immaginiamo, ben assorbita dal giovane Budd tanto che, pur non accreditato, egli poté personalmente dirigere almeno una sequenza del celebre colossal  hollywoodiano.

Inizia così, dettando tempi e spazi a Anthony Quinn e Rita Hayworth, una carriera registica che si dipanerà ancora per qualche anno all’ombra di piccole produzioni a basso costo, almeno fino al 1951 quando, complice John Wayne in veste di produttore, Boetticher riuscirà a firmare e mettere in scena nientemeno che un film dichiaratamente autobiografico: “L’amante del torero” (The Bullfighter and the Lady). Malgrado i suoi estimatori lo identifichino quasi esclusivamente con il western dando così la precedenza ad altri titoli, “L’amante del torero” è un magnifico film: lo sguardo di Boettticher stupisce per gusto ed eleganza nella composizione dell’inquadratura nonché nell’organizzazione del ritmo al suo interno; il tema taurino è descritto con precisione quasi didattica, alcuni toreri messicani partecipano alle riprese e fin dai titoli di testa vengono presentati come autentiche star, le sequenze dei combattimenti sono tra le più avvincenti mai girate, la macchina da presa diventa spesso lo sguardo dell’animale regalandoci un punto di vista inedito, uomini in posa statuaria si stagliano verso il cielo, la cappa accompagna l’inquadratura e ogni carica,  ogni veronica ricompongono lo spazio. La regia di Boetticher, appena trentacinquenne, stupisce tanto dal punto di vista estetico che da quello formale.

Malauguratamente John Wayne, in montaggio, impone il taglio sgraziato di 38 minuti di film provocando il giusto risentimento di Boetticher: era un personalissimo diario messicano quello a cui Wayne aveva strappato le pagine. Fortunatamente nel 1987 l’UCLA Film & Television Archive di Los Angeles rimette mano ai negativi, il film viene restaurato, reintrodotti quei 38 minuti e ripristinato il montaggio originale con buona pace del vecchio sceriffo. Oggi questa versione è facilmente reperibile anche nell’edizione italiana.

Passeranno quattro anni al ritmo di due film all’anno prima che Boetticher torni a calcare le arene messicane: lo farà dirigendo “Il grande matador” (The Magnificent Matador) dove Anthony Quinn, 15 anni dopo Sangue e arena, tornerà a vestirsi di luci. Il film, forse tra i meno ispirati nella filmografia del nostro, sembra tra le altre cose voler illustrare alcuni passaggi non indagati in quel manuale filmico di tauromachia messo in scena con “L’amante del torero”: sono interessanti in tal senso la sequenza del sorteo nonché i temi della paura e della conseguente fuga, che percorrono tutto il film. Nell’edizione italiana distribuita per l’home video il film viene presentato in una doppia versione: la prima, ricavata da un positivo bianco e nero nell’originale formato cinemascope, pur mostrando i segni del tempo è sostanzialmente fedele all’opera così come concepita dal suo autore; la seconda al contrario è il frutto di uno scellerato restauro digitale, colorizzata e rimaneggiata in un rapporto televisivo 4:3. E’ sconfortante. Budd Boetticher è stato un artista completo e non un piccolo mestierante al servizio di un sottogenere, il suo approccio estetico, la sua ricerca, il senso espressivo di ogni sua inquadratura ne facevano un autore perfettamente consapevole, colto, preparato ad approfondire ogni tema portato in scena, amava follemente gli impressionisti indicandoli come inesauribile fonte di ispirazione lungo tutta la sua carriera: che oggi uomini senza volto e senza storia possano arrogarsi il diritto di alterare arbitrariamente il suo lavoro immaginandolo più “appetibile” per chissà poi quale pubblico è inaccettabile.

Gli anni successivi saranno quelli del grande western e della consacrazione, in particolar modo il ciclo di sette film, quattro dei quali sceneggiati con Burt Kennedy, da “I sette assassini” (Seven Men from Now, 1956) fino a “La valle dei mohicani” (Comanche Station, 1960), che vedono Randolph Scott come protagonista; dialoghi ridotti al minimo, fuoco su esterni di grande profondità e un confine tra bene e male che si fa sempre più labile. Sono titoli imperdibili e leggendari. Ma viviamo tempi esangui, a meno che di tanto in tanto non facciate visita a qualche vecchia sala parigina è oggi praticamente impossibile rivederli su grande schermo come meriterebbero, le retrospettive proposte dalle cineteche nazionali riguardano sempre un ristretto numero di autori noti, il genere western viene dai più equivocato con superficialità imbarazzante (a meno che non si parli di Leone e Tarantino che, perdonatemi, stanno al western come il culturismo allo sport), anche oltreoceano i monumenti ai vecchi eroi di frontiera sembrano in equilibrio precario e i grandi cieli blu, di quel blu che solo il technicolorsapeva regalare e che in campo lunghissimo riempivano per tre quarti inquadrature mozzafiato, sono sempre più minacciati da stucchevoli arcobaleni artificiali.

Nel 1960 Boetticher si trasferisce in Messico per realizzare il progetto che già dal ’54 occupa i suoi pensieri: un documentario sull’amico matador Carlos Arruza, un’autentica ossessione che si rivelerà un’esperienza tragica e disastrosa. Nelle intenzioni dell’autore tutta la grazia e la forza della corsa dei tori sarebbero state catturate in forma inedita, spettacolare e definitiva arrivando a impiegare contemporaneamente 10 macchine da presa nella Monumental di Città del Messico. Negli anni che seguono tutto precipita: Boetticher che finanziò personalmente il film andò in bancarotta, venne incarcerato e successivamente vittima di un esaurimento nervoso ricoverato a lungo in un ospedale psichiatrico, il suo matrimonio ne uscì distrutto, lo stesso Arruza morì in un incidente d’auto prima che fossero ultimate le riprese. Dopo sette lunghi anni all’insegna della cattiva sorte Budd Boetticher riuscì comunque a portare a termine il lavoro. Ancora una volta Anthony Quinn collaborerà al progetto, in qualità di voce narrante. Sono 74 minuti di film ormai molto lontani dall’ambiziosa idea originaria e nel frattempo anche il pubblico è cambiato, malgrado una buona accoglienza della critica negli Stati Uniti il film verrà distribuito solo nel 1972 e subito ritirato.

Da qui in poi il regista girerà un solo lungometraggio, A Time for Dying (1969), e rifiuterà categoricamente ogni sceneggiatura gli venga proposta; l’esperienza di “Arruza” verrà raccontata dallo stesso Boetticher in un libro, “When, in disgrace”, tradotto in occasione della 18° edizione del Torino Film Festival che al regista dedicò una serie di proiezioni. Nel catalogo della mostra si può leggere una bellissima intervista rimbalzata successivamente su diverse testate, ne riportiamo poche righe:

“(…) La gente mi chiede perché i miei film sono così diversi dagli altri western. È perché tutte le cose che si vedono nei miei western si vedono perché le faccio, le so fare, o so che sono possibili. Sono cose che ho sperimentato personalmente, che ho vissuto. Conosco I cavalli, so come combattere (…) Nessuno mi permetteva o non permetteva di fare niente. Non avevo bisogno di permessi, e alla Columbia sapevano che sarebbe stato un errore seccarmi. Non è ego, è la verità: non puoi lasciare che un mucchio di persone che non sanno cosa vogliono ti dicano cosa fare. È vero, non molti registi a quel tempo avevano la stessa libertà. Ma io ero un torero: aldilà del toro, non c’è granché che mi faccia paura. Devi essere molto forte per fare così. Ma io lo ero, lo sono e lo sarò sempre”[1]


[1] (intervista tratta dal catalogo del Torino Film Festival 2000, a cura di Giulia D’Agnolo Vallan e Steve Della Casa)

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