Tori e Utopia

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I tori hanno a che fare con una presa di misura. Non parlo della cosa più ovvia cioè di come nell’arena un animale e un uomo misurino i reciproci spazi per uccidersi. Questa è una cosa vertiginosa e complicata da cogliere ma lo è anche la lunghezza che ciascuno deve trovare in sé rispetto all’evento e al pensiero della tauromachia. Il problema della distanza non va confuso con l’adesione personale ai tori o con la professione più o meno pubblica di un’opinione. La misura è – come nella corsa vera e propria – una pratica intuitiva del limite per capire come salvarsi o come esporsi alla perdita. Tra gli aficionados vedo ad esempio tizi con il naso così pigiato contro il rabo del toro da non vedere nella corrida altro che buchi neri. Oppure c’è gente che tiene una distanza così lunga dalle corna dell’esistenza da dimenticare il cuore e l’emozione che sono il motivo più sincero per entrare nell’arena. In fotografia potremmo parlare di cadrage. Quando ritagli per additare una via di fuga o una scorciatoia per l’occhio. Quando includi una luce e le offri una sponda per non uscire. O quando il bordo non è netto e il dentro entra in osmosi con il fuori. È un’arte feroce. Una delicata empiria quella che deve aiutare l’aficionado a trovare la sua giusta posizione rispetto ai tori. Veroniche e banderillas del cuore – quelle che uno dice e talora scrive nella balbuziente tertulia del fuori-arena – sono una schiuma di superficie. È la vibrazione. È l’oscillazione un po’ schizofrenica tra esserci e non esserci che definisce la geografia utopica della corrida quando arriva a intersecare il piano delle vite singole. Nel mio caso ad esempio è una specie di messa a morte. Perché il problema per me è uccidere la tauromachia: la corrida deve morire. Deve morire come un castello di carte che la morte del toro fa crollare. Deve morire a Pasqua e a Pentecoste e in ogni feria lontana di paese dove l’attesa di un anno intero si dissolve. Deve morire per rinascere e come ogni resurrezione che conti ha bisogno di un capestro. Odio e amo. Son pazzo e non son pazzo. Ma questa mediocre condizione individuale è solo la declinazione solitaria di un meccanismo del pensiero che tutti ci avvolge. Come un busto. Abbiamo un bisogno costante di utopie. Costelliamo l’età del ferro – che è coestesa a tutta la storia reale – con idee leggendarie di una qualche età dell’oro. Ci affanniamo a costruire universi paralleli in cui giochiamo al gioco dei destini alternativi. Ci culliamo nella prospettiva di un nuovo evento. Di una parusia moderna. Del riscatto dei diseredati. Ma il punto è che nessuno confeziona un’utopia senza un’apocalisse. Per funzionare la terra nova della corrida ha bisogno delle sue piccole miserie di base. E della grande minaccia della fine. Quella decretata da tori morbidi o cuori teneri. Per me personalmente si tratta di ucciderla dentro di me. Di dirle perennemente addio perché altrimenti come potrei ritrovarla? Terra promessa. Patria maledetta. Dove mi trovo io? In quale punto della mappa disegnerò la croce d’inchiostro su cui fissare i piedi e resisterle e amarla alla giusta distanza? “Tu sei la mia isola. Tu sei il mio rifugio. Nella risacca dei mesi e dei giorni sei la mia spiaggia di rame battuto. Nell’arsura estiva sei la sorgente umida profonda. Sei la voce che mi culla nelle tenebre. La pianta di salvia sei tu quando il mio naso è arido di sabbia. Nei deserti e nei giardini dei potenti seguo la luce delle tue caviglie. Il riflesso rapido della tua nuca rischiara il mio cammino di buio. Quando vedrò le parole delle tue mani? Quando sarai il porto delle mie anche?”. I Babilonesi amavano i tori. E avevano incollato al loro dorso ali di rapace.

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(Modena, 1968) è antropologo e scrittore, oltre che aficionado. Ha visto la sua prima corrida ad Arles, il 9 aprile 2004: Javier Sánchez Arjona per Enrique Ponce, El Juli, José Mari Manzanares. matteomeschiari@uominietori.it

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