Souviens-toi d’oublier

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Ruedo, photo M. Meschiari

La memoria e la corrida stanno tra loro in uno strano rapporto. Ad esempio mi ricordo benissimo tutti i locali di Madrid la prima volta che ci sono stato ma non so dire quante corse ho visto con che ferri e che toreri in quegli stessi giorni di maggio. Forse potrei archiviare la questione dicendo che m’interessano più le bettole dei tori ma se anche fosse vero sarebbe farla troppo facile. Non riesco infatti a togliermi dalla testa le lezioni di Ezio Raimondi su Salvatore Viganò. Viganò era un ballerino e coreografo vissuto a cavallo tra Settecento e Ottocento. Si dice che sia stato lui a inventare il coreodramma cioè il balletto in cui le masse corali hanno preminenza sugli assoli. Quello che spiegava Raimondi a noi studenti di via Zamboni 38 era la difficoltà di immaginare l’effimero. Il punto è che delle coreografie di Viganò non esistono fotografie o filmati ma solo descrizioni verbali che stanno all’azione come l’ekphrasis sta all’opera d’arte. Detto altrimenti quasi tutto è perduto. Nel dramma corale della corrida succede la stessa cosa. Ovviamente oggi abbiamo le riprese televisive il rallentatore e lo zoom ma le tertulias e l’enorme mole di parole spese anche sopra una singola corsa sono la prova del fatto che un toro e un torero costruiscono sempre qualcosa di imprendibile. Addirittura di ineffabile. C’è qualcosa insomma che si cancella e va via e questa autocancellazione del dramma è l’enorme propulsore creativo del “dopo”. La corrida esiste infatti nel dopo in una maniera completamente diversa da quando accade nel ruedo ed esiste nella memoria della gente anche per mesi e anni. Ma eccoci al punto di partenza. Perché questa cosa della memoria è vera solo in parte. Anche coloro che tra gli aficionados hanno memoria ferrea e soprattutto motivazione e vocazione devono ammettere che la sabbia dell’arena sfugge sempre tra le dita di chi vuole trattenerla. Non a caso i più professionali e rigorosi possono arrivare a prendere appunti durante una corsa con la stessa ipnosi che può incollare un passante al cellulare. Più di una volta mi è capitato di vedere persone che si perdevano un passaggio di muleta proprio perché stavano alacremente annotando qualcosa sul passaggio precedente. Ancora una volta cioè siamo in presenza di un’assenza che ricorda da vicino l’entropia. Per fortuna insomma che ci sono i taccuini e i programmi e soprattutto internet perché altrimenti la memoria della corrida resterebbe nella mente delle persone come una nuvola di vapore. Non esagero. Quanti contatti tra torero e toro ci sono stati in quei quindici minuti? Quali? In che ordine? E i tori? Dovrebbe esser facile: sono solo sei. E invece quante volte ho sentito dire il terzo ah no era il secondo no no era il terzo sei sicuro sì che sono sicuro e così via. Un po’ è da imputare ovviamente alla serialità delle figure e alla ripetizione dell’atto. Ma il punto è che bisogna rassegnarsi a un ennesimo limite cognitivo – forse il più importante – che la corrida ci regala. La sua realtà scontornata non è fatta per la percezione ordinaria. Chiede un’attenzione che è di tutto il corpo. E forse è proprio nel corpo e non nel cervello che va a immagazzinarsi quel troppo che si perde. È come se l’embodiment di cui parlano i neuroscienziati fosse la destinazione – e in parte il fallimento – di quella cosa importantissima per vivere che è il dimenticare. Così forse quella fatica che dopo due ore si sente ovunque nel corpo non è dovuta solo ai gradini minuscoli e scomodi o ai troppi gin tonic. Forse la memoria della corrida entra nei muscoli e cova con fantasmi di movimento che a volte sembrano riemergere qua e là. Ad esempio nelle bettole dove stracci di tertulia vengono accompagnati da gesti di mani e mezze torsioni del busto che evocano immagini sempre più vaghe. Sempre più diafane. Così ecco che si chiude il cerchio. Io amo La Paloma in Calle Toledo ad esempio. È lì che Matteo Nucci mi ha fatto provare i miei primi percebes. È lì che sono tornato per bere qualche bianco e svuotarmi le tasche davanti a un piatto di crostacei indimenticabili. Indimenticabili. Ma ogni volta che li ricordo – e ormai devo ammetterlo anche se non mi va di farlo – è proprio la corrida che sto ricordando. Non quella corrida o quel toro o quel torero. Ma la corrida come gesto di densità e dissipazione. Che continua. Che continua davanti a un bicchiere di oloroso. Davanti a un piatto di sardine.

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(Modena, 1968) è antropologo e scrittore, oltre che aficionado. Ha visto la sua prima corrida ad Arles, il 9 aprile 2004: Javier Sánchez Arjona per Enrique Ponce, El Juli, José Mari Manzanares. matteomeschiari@uominietori.it

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