Quel che non abbiamo mai vissuto

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Nostalgia è una parola recente. Benché sia coniata su due parole greche (nòstos, ossia ritorno, e àlgos, ossia dolore) essa risale a fine Seicento. Il conio è noto. Diversamente da molte parole la cui origine sfugge, persa, com’è, nell’uso quotidiano, qui ci sono nome e cognome. Johannes Hofer è il giovane studente di medicina che nel 1688 all’Università di Basilea propone una tesi di laurea dal titolo “Dissertazione medica sulla nostalgia”. Lo spunto è costituito dai dolori dei soldati svizzeri al servizio del re di Francia costretti a una lontananza feroce dalle valli di origine. Ma il sentimento, nella sua ampiezza con cui oggi lo utilizziamo, non ha storia. Esiste da sempre. E soprattutto ha caratteri assolutamente particolari perché se Odisseo ci mostra che il dolore del ritorno si prova soprattutto quando si è ormai tornati a casa, la nostra esperienza ci racconta addirittura che quel dolore lo proviamo anche per case in cui non abbiamo mai vissuto e dove non potremo tornare mai. Case perdute nel tempo, per esempio.

Tutti gli appassionati di tauromachia lo sanno bene. Ne ho già parlato tempo fa per uno dei suoi aspetti dominanti. Eccone un altro. Spuntano fotografie dal cassetto di una casa che si sta svuotando. Raccontano la storia di una passione che conosciamo nei minimi particolari. Siamo tutti lì, oggi, con i nostri smartphone, a immortalare le tardes di bellezza o di noia a cui partecipiamo dal tendido. Rivediamo il nostro occhio. Il nostro sguardo. Il nostro disperato tentativo di fissare per sempre quel che stiamo vivendo. Ma i gesti toreri, quelli sono cambiati. Il rito è lo stesso, sì, e tuttavia qualcosa si è perso, qualcosa prima non c’era. Che cosa? Sarebbe difficile dirlo. Gli esperti possono spiegare molte cose, ma non ci bastano mai. Anche perché quel che conta di più è che ci troviamo davanti agli occhi un’atmosfera perduta. Una partecipazione che ha caratteri lontanissimi da quelli che conosciamo. E non sono le camicie, i volti, i berretti degli aficionados no, è altro, che non sappiamo spiegare.

Ci resta solo la nostra percezione. E il dolore di quel che fu e che a noi non è stato dato. Ecco la storia di Franco Lolini, per esempio. Era nato a Milano nel 1932. Poco più che ventenne si appassionò ai tori. Partì più volte per inseguire quello che i giornali italiani non raccontavano e non spiegavano. In arene di prima, seconda, terza categoria a cercare di scoprire il mistero del toro, il mistero che abbiamo dentro, ma lo vediamo fuori, in quell’arena dove il toro non è un simbolo ma è vita che si prepara alla morte. Le foto scattate a Céret nel 1956 costituiscono una galleria eccezionale per gli appassionati che grondano nostalgia di ciò che non hanno mai vissuto.

La plaza è zeppa fino all’ultimo spettatore quando lo spettacolo ha inizio. E la suerte de varas è ancora centrale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La faena inizia. Il matador sposta il suo toro. Lo porta lontano dal territorio che si è scelto come querencia.

 

 

 

 

 

 

 

 

Addomesticandolo cerca di creare arte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Si lascia prendere in una voltereta senza conseguenze

 

 

 

 

 

 

 

 

Si volta in un classico desplante 

 

 

 

 

 

 

 

 

Poi arriva il momento di uccidere, il momento della verità, e le cose non sono semplici

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il puntillero fa quel che deve.

 

 

 

 

 

 

 

 

Entrano i mulilleros

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E per il matador comincia il giro d’onore: il momento della gloria.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma quello che ci colpisce di più è un’atmosfera perduta. Bambini nell’arena. Rito e gioco.

Come la follia estatica degli spettatori che riempiono gli spalti di ben altra plaza, quando Lolini, pochi giorni dopo, si siede nel tendido della Monumental di Barcellona. E qui qualcosa abbiamo pur vissuto. E non lo rivivremo mai.

 

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Matteo Nucci (Roma, 1970) è scrittore, oltre che aficionado. Negli anni Novanta a El Espinar, durante una notte interminabile, vide vaquillas correre nella plaza. Era l'inizio della febbre tauromachica

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