Periferie del taurino

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Photo M. Meschiari

A Natale, soprattutto in rete, girano cartoline di auguri a tema taurino. Difficilmente l’effetto è poco più che “simpatico”, molto spesso è irrimediabilmente kitsch. Statuine del presepe di toreri e tori, Babbo Natale con la muleta che torea una renna, un capote de brega decorato come un abete. Queste immagini (forse per fortuna) svaniscono presto, in un sorriso compiacente, in un silenzio tollerante. Per gli aficionados sono l’espressione senza rilievo di un linguaggio privato, un codice condiviso, una specie di strizzata d’occhio tra amici. Forse, per lo meno in Europa, sono l’espressione un po’ malinconica di quel lungo letargo invernale che separa lo spettatore dalla prossima temporada. Briciole irrisorie nel mare del mondo taurino. Passano le feste e noi volentieri le dimentichiamo. Tuttavia la corrida ci insegna che ogni dettaglio, anche il più irrisorio, è un elemento importante in un sistema dove tutto si tiene. Sappiamo da sempre della fertile connessione tra stagione taurina e calendario cerimoniale cattolico, sappiamo bene che il sacrificio del toro e il sacrificio pasquale hanno sempre giocato a sovrapporsi, in un intreccio in cui l’elemento pagano e quello cristiano si fanno eco. Gli studi etnografici, antropologici e sociologici sono numerosi e diversi, ma tutti sembrano testimoniare una costante: anche se il rito ha una profondità temporale enorme, anche se ha radici lontanissime, la sua forza è quella di adattarsi sempre al presente, come una storia in cui cambiano scenari e personaggi ma che si ostina a raccontare le stesse cose: la vita, la morte, la rinascita. Tornando allora alle infelici cartoline taurine di Natale, prima di archiviarle come trovate poco riuscite o (come io stesso sarei portato a fare) come patetica paccottiglia, dobbiamo chiederci che cosa ci dicano veramente sotto il pretesto augurale. La prima osservazione che può venire in mente è che l’aficionado stia cercando di forzare i limiti naturali della corrida, portandola dove di solito non sta, traghettandola in altri spazi di vita, proprio come una fede, che permea di sé il quotidiano, che invade il presente anche quando il rituale vero e proprio è precluso o lontano. La seconda osservazione, forse un po’ più astratta, è che solo la trasformazione può garantire la conservazione, solo il rinnovamento, con i suoi tentativi maldestri e le sue forzature, può rafforzare la tradizione. Un presepe taurino, un Babbo Natale torero, hanno qualcosa di patetico, nel senso comune del termine ma anche nel senso classico del pathos, del sentire tragico, dove l’effetto era quello di spostare l’emozione, e con l’emozione il pensiero. Verso dove, nel caso di statuine un po’ fuori luogo e di cartoline di dubbio gusto, così lontane dal vero, concreto e serissimo sacrificio del toro? La risposta è nota. Verso la prossima corrida. Perché la forza del rito non è la risposta, ma la ripetizione, cioè riattualizzare l’unica domanda che conta: “perché la corrida?”.  Il presepe e il signore vestito di rosso non hanno risposte, figuriamoci, ma anche loro ci dicono tra le righe quello che crediamo di sapere e che continuamente dimentichiamo: osservare il cambiamento è l’unica strategia valida per conservare ciò che abbiamo. La critica taurina seria fa proprio questo.

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(Modena, 1968) è antropologo e scrittore, oltre che aficionado. Ha visto la sua prima corrida ad Arles, il 9 aprile 2004: Javier Sánchez Arjona per Enrique Ponce, El Juli, José Mari Manzanares. matteomeschiari@uominietori.it

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