In Colombia: il Río Magdalena

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Con la visione ciclica della vita noi abbiamo poco a che fare. Siamo abituati a pensare il tempo e la nostra esistenza nel tempo come se si trattasse di una linea retta che parte dal passato, attraversa il presente, e si proietta nel futuro. Siamo anche abituati da secoli a pensare che il futuro debba necessariamente riservarci un miglioramento, una crescita, un progresso. Dalla creazione al giudizio finale – per i cristiani. In cammino verso il trionfo della Ragione – per gli illuministi. In attesa del giudizio che premia il successo e la produzione – per il protestantesimo capitalista. Quando cerchiamo di ripensare il tempo e immaginarlo in un circolo, facciamo sforzi enormi. Gli antichi invece non dovevano farne affatto. E parlo degli antichi in generale. Molto banalmente, essi non si erano allontanati, come capita nella dimensione metropolitana ormai dominante, dal respiro della natura, e facevano continua esperienza del ciclo di nascite e morti in cui siamo gettati – noi umani, come tutti gli altri animali. Il modello, per i Greci, era evidentemente biologico. Si nasce, si cresce e si raggiunge un culmine (l’acme, in greco akmè, ovvero la fioritura), poi si invecchia, si decade, si muore e la nostra morte lascia spazio a nuova vita. Ora, è chiaro che l’immersione costante nel corso dei fenomeni naturali facilita il compito di vuole cogliere i frutti di questa visione, mentre chi vive il ritmo della città moderna si abitua piuttosto a giornate che si affastellano in pianificazione, progetti e lavori, scadenze, produzione e guadagni, tutti sforzi che dovrebbero portare al benessere e che in effetti si avvicendano per raggiungere mete illusorie come la pensione, o mete più stabili come la morte. Eppure anche noi metropolitani, noi occidentali, noi vittime di un pensiero che cerca obiettivi ovunque, anche noi possiamo fare esperienza del ciclo. Basta vivere lo scorrere del fiume. I fiumi attraversano molte delle nostre città, ma sono spesso lontani da noi, separati irrevocabilmente dagli argini. Ma basterebbe avvicinarsi e contemplare. Perché i fiumi, nel loro eterno scorrere, ci danno la possibilità di fare esperienza del ciclo in cui siamo stati gettati, liberandoci dall’ansia di pensare qualcosa a cui la nostra educazione ci ha ormai abituato. Tutto scorre – sostengono che dicesse Eraclito. In realtà non lo diceva usando la banale e famosa espressione “panta rei”, ma certo lo intendeva per dire che siamo tutti parte di un ciclo. Non esseri animati che vedono passare le cose come penserebbe chi soppesa il tempo e la vita sulla maledetta linea retta. Bensì animali immersi in acque mai uguali, che seguono sempre lo stesso corso e partecipano eternamente dello stesso ciclo.

Ho vissuto il ciclo per giorni sul Río Magdalena. Mi sono abbandonato completamente all’anima del fiume, al tempo sospeso, perché non c’è più il tempo nel ciclo continuo, c’è una dimensione esistenziale in cui siamo costretti a fare i conti con noi stessi. Mi sono lasciato cadere in uno spazio che è fuori dallo spazio e mi è parso di intuire qualcosa di cui ero in cerca da giorni.

Il Magdalena è il fiume colombiano per eccellenza. Ha origine dalle parti di San Agustín, nel Macizo Colombiano del Huila, e scorre per oltre 1500 chilometri, fino alla foce caraibica dalle parti di Barranquilla. Ha rappresentato la via principale di comunicazioni interne al Paese per secoli e sul suo corso sono disseminati centri di ogni genere: cittadine, paesi, minuscoli pueblitos, baracche solitarie. Ma c’è una città perfetta per vivere questo fiume. Si chiama Santa Cruz de Mompox e i locali la chiamano semplicemente Mompos. Fu fondata nel 1540, visse anni di splendore, prima vera tappa nella risalita sul fiume dei carichi provenienti dai Caraibi. Poi a fine Ottocento il corso del Magdalena mutò, il braccio del Loba di Magangué fu preferito per le navigazioni e Mompos cadde in una sorta di isolamento e oblio. Niente commerci, niente progetti, scopi, mete da raggiungere, niente progresso. Solo il fiume. Solo le case coloniali, solo strade terrose e un caldo implacabile, un’umidità che toglie il fiato e le chiese che suonano campane che sembrano intrappolate nei suoni della natura e il cimitero che accoglie tutti ma soprattutto iguane e gatti. “Mompos non esiste. A volte la sogniamo ma non esiste” scrisse Gabriel García Márquez, tanto che molti credono che sia Mompos e non la sua Aracataca la fonte d’ispirazione della Macondo di Cent’anni di solitudine. Ma cosa importa? A Mompos si scopre, fra le altre cose, che è del tutto imperfetta la definizione “realismo magico”. Non c’è nulla di magico nel senso di fantastico o falso in ciò che raccontò GGM. C’è solo la realtà. Ma la realtà di chi vive in un tempo sospeso, in uno spazio fuori dallo spazio, in una dimensione in cui insomma le coordinate spazio-temporali sono sovvertite, scardinate, divelte. Senza violenza, certo. Soltanto perché così stanno le cose. Non c’è altro che un eterno ciclo. Progresso è una parola. Produzione è una parola. Conquista una chimera.

Sono arrivato a Mompos dopo sette ore di viaggio commovente. Abbandonando i suburbi di Cartagena, un intrico di lamiere e traffico sconvolgenti alle sei di mattina, mi sembrava che esistesse solo una corsa contro il tempo, poi il bus ha lanciato i suoi passeggeri in una corsa oltre il tempo. Strade sconquassate, fra uomini seduti su poltrone di automobili piazzate ai lati delle carreggiate, baracchini che vendono succhi di frutta e cibarie di ogni genere, mondezza scaricata alle curve, finché la natura non ha preso il sopravvento. Robles in fiore. Bouganvillea su pergole arrangiate. Alberi immensi che fuggono via dietro i finestrini assieme a baracche e baracche e baracche e stradine di terra, bambini nudi a inseguire porci, uomini impegnati in lavori incomprensibili, e fiumi, lagune, baracche, baracche, motorette, poi ponti, fiumi, natura rigogliosa per lunghi tratti e appezzamenti coltivati e canali e intanto donne e uomini salivano a bordo a vendere pollo fritto, pizze casalinghe, arepas, panini incellophanati artigianalmente tutti legati alle dita dell’uomo che ne canta le qualità e li stacca in un gesto veloce per darli al volo a chi offre il giusto. Eppoi secchi pieni di ghiaccio e bottiglie di acqua, birra, refrescos. Così per ore, ore, ore, sette ore, baracche e natura, bambini e pescatori, mucche gobbe e avvoltoi, panini e bibite, paesini e biciclette, motorini e ponti, così per ore, per ore, ma cosa importa delle ore se ci si prepara a arrivare a Mompos?

Dal piazzale dei bus, sotto un sole che sembra acciaio rovente, motociclette e tuc tuc invitano chi è arrivato – prima le donne con i loro bambini che per sette ore non hanno fiatato, nemmeno un lamento, nemmeno una parola. L’aria calda ti prende la faccia. Due isolati di buche nella terra e infine eccola la città coloniale più bella in cui io abbia mai messo piede. Un lungofiume fuori da ogni tempo, un lungofiume eterno. È bastato un attimo infatti, per capire che tutto era cambiato. Ho lasciato le mie cose in un hotel coloniale, la semplicità più assoluta, solo acqua fredda, ma che ci fai con l’acqua calda qui? solo pale di ventilatori e un patio di piante annaffiate ogni giorno e l’aria in circolo come tutto è un circolo. Mi sono incamminato verso Santa Barbara, una delle chiese famose. Sulla strada vuota stava per scendere il crepuscolo. Non c’era nessuno in giro. Solo due signore sedute fuori dal grande portone. Ho avvicinato la mano al cappello, mi hanno salutato. “I nostri avi erano italiani” ha detto la più giovane, una ragazza settantenne, indicando la madre “Ha 97 anni. 30 dicembre del 1925. Pianeta è il nostro cognome. Sabina Flores si chiama mamma. Veniva dalla Sicilia suo nonno”. “97 anni?” “Ha un po’ di acciacchi” “Ma no, sto bene, è mia figlia che esagera”. Che valore ha il tempo qui? Lo stesso valore della proprietà forse. E infatti mi invitano a farmi un giro dentro la loro casa. Mi aspetteranno fuori, non entrano ora che c’è questa bella aria. La casa replica una disposizione di spazi che è sempre la stessa in tutte le case coloniali di Mompos. Ingresso e studio laterale che affaccia sulla via. Spazio coperto che guarda al grande patio aperto e rigoglioso di piante annaffiate. Un camminamento laterale su cui si aprono le stanze da letto. In fondo, le cucine e, dietro, una sala da pranzo e un altro patio. Il sistema di aerazione è perfetto. Le sedie a dondolo sono disposte davanti al patio. La vita è questa. Segue il ciclo della giornata.

Non c’è che un vero e unico posto dove mangiare a Mompos. È aperto solo a pranzo e si chiama Comedor Costeňo. Tavolacci sotto ombrelloni a coprire anche gli spicchi di sole che passano attraverso il fogliame dell’enorme ceiba. A pochi metri il Magdalena. Mangiavo il pesce del fiume, il bocachico, e ho visto che una lancia si preparava alla partenza. Due belgi l’avevano affittata. Partiva alle cinque. Mi hanno accolto. E così, dopo giorni a vedere il fiume che scandisce l’assenza di tempo di questa città immaginata e irreale come ci pare irreale qualunque cosa sia vera, nel fiume mi sono definitivamente immerso. Iguane sulle rive. Ovunque la garza, un airone, bianco, platinato, cinerino, nero. Eppoi ogni genere di uccello, dal Martin Pescatore a falchi di innumerevoli specie. Scimmie che si dondolano lontane. Alligatori vicini. E ragazzini che nuotano e vecchi che pescano e donne che lavano e molti bambini, giovani e vecchi che sono lì seduti o sdraiati sulle rive immobili. Cosa guardano? Cosa aspettano? La signora belga si chiede che vita sia quella. Me lo chiedo anche io. Poi mi rendo conto che ciò che non vedo in questi uomini e queste donne di ogni età è il dannato progetto. Io ce l’ho un bel progettino, vero? E a cosa mi porterà? A cosa serve? Fuori dal tempo, fuori dal tempo. Cogliere il ciclo fuori dal tempo. È impossibile, resta impossibile se si considera inutile una vita che non ha progetti né mete, che non produce e non cerca successo, che non va da nessuna parte, nessuna parte, nessuna parte. Così diciamo noi. Non va da nessuna parte. Qualcuno pesca, getta reti colorate. Altri lo guardano pescare. Qualcuno saluta. Qualcun altro ancora si ritrae dalle macchine fotografiche. Arriviamo alla ciénaga, la palude. Le garzas affollano un’ansa e si sollevano in volo. Una di loro apre ali maestose e resta ferma come per farsi ammirare. Un toro muggisce. Fra poco tramonta. Meglio tornare.

A Mompos ho visto quello che racconta il Museo dell’Oro. Quello che raccontano i miti antichi. L’animale uomo dotato di parola. La sua animalità. Quello che, proprio a causa della parola, l’umano in mille modi tenta di dimenticare.

(4 – continua)

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