In Colombia: San Agustín

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Per raggiungere i luoghi in cui nasce il río Magdalena la strada da Cali è lunga. A leggere le mappe, chi è abituato a spostarsi nella dimensione dominata dalla velocità (che siano autostrade o treni all’avanguardia), si fa l’idea che il viaggio possa durare un attimo. I chilometri sono duecentosettanta e le strade sembrano buone. Ma fortuna che non ovunque regni la velocità a tutti i costi e che sia ancora necessario fare i conti con il tempo. Del resto, se questo fiume a Mompos mi ha spinto a galleggiare fuori dalle abituali coordinate spazio-temporali, è giusto che alle sue origini, non si smentisca. E così, molte cose capitano prima di arrivare a San Agustín. All’inizio, sulla bella strada che il Departamento del Cauca sta allargando, si susseguono quelli che qui chiamano “pare y siga”. Un addetto ferma chi viaggia su un lato della carreggiata, la fila si forma, i motori vengono spenti e come dal nulla appaiono donne e uomini con biscotti, frutta, succhi, piatti cucinati, dolciumi e formaggi, decantano le qualità dei loro prodotti in saliscendi vocali, raccontano storie, invitano a fare altrettanto. Popayán, la bella città coloniale bianca, appare dopo quattro ore in un turbinio di traffico. Le vie interne e quelle laterali sono un caos assoluto di lamiera, benzina e clacson. Poi, quando si riesce a superare anche l’ultimo ingorgo, la strada si allontana da case colorate, quindi comincia a salire fra campi di un verde misterioso dominati da lama, vacche, cascate. Il clima cambia, abeti lussureggianti disegnano impressionanti figure geometriche, e l’altipiano si allunga fino a un paesino famoso per il formaggio leggero, una specie di primo sale: Paletarà. Sono passate ormai sei ore e mancano soltanto sessanta chilometri a San Agustín, ma quella che comincia adesso è una strada incredibile per bellezza, durezza, intensità. Bisogna percorrerla per capirla. Si entra, infatti, nel páramo, un ecosistema unico e supremamente andino dominato da una vegetazione rigogliosa a quattromila metri di altitudine. La nebbiolina avvolge il verde sbiadito del parco nazionale di Puracé. Ai lati della carreggiata la foresta è impenetrabile. La carreggiata invece è uno sterrato sassoso, a tratti divelto da buche, lungo una trentina di chilometri che si percorrono in due ore e mezza. Camion, camioncini, automobili, fuoristrada, piccoli autobus spericolati, veri e propri tir. Si incontra di tutto. I sorpassi vengono agevolati dai conducenti dei mezzi più lenti. A tratti si incontrano auto semi ribaltate o in panne per motivi oscuri. E quando la sterrata finisce e l’asfalto riprende il dominio della natura, un posto di blocco dell’esercito in cerca di chi traffica cocaina, obbliga a una nuova sosta. Adesso si comincia a scendere. Si susseguono locali commoventi dove è impossibile non fermarsi a bere qualcosa. Poi altri cinquanta chilometri da percorrere in un’ora abbondante. E infine San Agustín compare accanto al Macizo Colombiano, a precipizio sulle acque del Magdalena che dopo i primi chilometri hanno già cominciato a ingrossarsi. Sono passate nove ore e mezzo. Qualcuno vorrebbe fare il conto della media oraria, ma cosa sono le ore qui? Qui, a San Agustín, del resto, non ci sono proprio ore, né giorni, né anni. Si potrebbe fare un calcolo in millenni, semmai. Ma sarebbe inutile. Perché quello a cui si va incontro è l’eternità.

La civiltà misteriosa che qui crebbe a partire dal III millennio a.C. e che scomparve prima che Colombo toccasse terra con le sue tre caravelle ha lasciato uno di quei segni che nella storia di ciò che è intrinsecamente effimero spingono a immaginare la possibilità di una dimensione eterna. 

I fatti sono questi. Accanto al paese di San Agustín – un paese vitale, pieno di negozi, negozietti, gente, ragazzi quasi spensierati (qui la guerriglia rendeva le zone impossibili) – il principale sito archeologico apre i battenti a un’esperienza estetica sconcertante. Ma questa stessa esperienza si può replicare in oltre dieci altri luoghi disseminati su una superficie ampissima che arriva fino a un paese lontano una trentina di chilometri da San Agustín, ossia Isnos, dove peraltro si trovano i siti forse più spiazzanti: Alto de las Piedras e Alto de los Idolos. Si tratta di una gigantesca necropoli (oltre 50 chilometri quadrati) del tutto unica nel suo genere, perché caratterizzata da statue di fattura pregevole, scolpite in roccia vulcanica e dipinte da quello che è stato ribattezzato “popolo di scultori”. Statue che tuttavia per la maggior parte non venivano esposte e non erano concepite per essere osservate e ammirate. Esse infatti erano sepolte assieme al morto, in monticoli che contenevano i classici dolmen e sarcofagi. Le ipotesi degli studiosi non possono in nessun modo dare una risposta allo stupore e alla meraviglia che generano queste forme particolarissime, le storie che esse raccontano senza voler raccontare, le figure che esse rappresentano senza voler rappresentare. Noi ammiriamo, osserviamo e contempliamo, perché gli archeologi hanno provveduto a dissotterare e mettere in mostra opere che non erano tali come noi le intendiamo – a volte decontestualizzandole come accade ovviamente nel piccolo museo o in quello che è chiamato “bosco delle statue” (dove sono esposti circa cinquanta pezzi eccezionali), primo camminamento del sito archeologico principale. Noi osserviamo, ma dovremmo sempre ricordare che queste opere perlopiù non erano state concepite per l’osservazione. E così tutte quelle teorie che si leggono circa alcuni di questi esemplari non possono che cadere. Vale la pena di citare soltanto una delle più famose speculazioni. Quella relativa a una statua ribattezzata “Doble Yo” ossia “Doppio Io”, un’opera in cui due esseri umani si sovrappongono, forse per alludere a umano e divino, forse per richiamare la dualità che è comune denominatore di queste culture, e che ovviamente ha offerto spunti infiniti per letture di tipo psicanalitico. 

In effetti, di fronte a questi capolavori di grandezze diverse, forme diverse, stili diversi noi ci troviamo in una condizione di assoluto spaesamento. Tutti gli strumenti di cui ci dotiamo per interpretare l’arte antica, almeno quelli che noi occidentali abbiamo messo a punto – consapevolmente o meno – in anni di formazione, sembrano spazzati via. Meglio limitarsi a una breve descrizione, allora. L’elemento principale è l’incontro umano-animale. La bocca felina, molto comune, richiama il giaguaro. Ricorrono il serpente, l’aquila, la rana, la scimmia, la lumaca. La maggior parte dei pezzi sono a se stanti, individui unici, pochi dei quali emergevano dal terreno a segnare probabilmente il punto di contatto fra questo e l’altro mondo. Altri invece sono coppie di soldati, custodi o sciamani, anche detti “Cariatidi” perché sostengono spesso il tetto del dolmen e sono posti ai fianchi dell’individuo particolare. Segno inconfondibile e comune a altre culture precolombiane sono i bastoni con cui gli sciamani richiamano spiriti ausiliari nonché sonagli che riproducono i versi degli animali dotati di potere. Tutte le statue erano dipinte. Indumenti sono facilmente riconoscibili nelle figure fantastiche dominate dall’idea che la forza di un essere umano sta nella sua animalità, nella sua perfetta immersione nella natura. In questo senso, straordinaria è la statua che riproduce l’amplesso fra un giaguaro e una donna. Per noi cresciuti con Creta nell’anima il riferimento più scontato è quello all’amplesso fra il toro bianco di cui s’innamorò Pasifae per generare il Minotauro.

Quando, dopo due giorni di sogno passati assieme a un amico preso dalla stessa curiosità, ci siamo rimessi sulla strada inversa per tornare da dove eravamo venuti, tutto era cambiato. Alle sorgenti del río Magdalena stanno le risposte, in forma di domanda, di ciò che è il tempo ciclico, quella dimensione che è al di là del tempo stesso, in cui, attraverso l’effimero, sfioriamo l’eterno. Non so quale possa essere la vera storia delle statue di San Agustín. Ho già comprato libri per venirne a capo, convinto del resto che sarà impossibile. Al tempo stesso, ho la netta impressione che il pezzo unico, sotterrato assieme al morto, fosse scolpito per raffigurare il morto stesso, l’individuo particolare che aveva vissuto la sua vita, con vizi e virtù, e che aveva manifestato la sua forza, la sua resistenza, la sua tenacia in forme che potevano essere accostate a certe caratteristiche animali. Raffigurandolo, scolpendone i caratteri animali, chi gli sopravviveva cercava di insistere sulle qualità e i poteri che avrebbe dovuto sviluppare nel suo viaggio oltremondano. La statua serviva a questo. A mostrare chi lui fosse, accompagnato da custodi, guerrieri, sciamani, nel percorso oscuro che avrebbe vissuto per l’eternità. Nel ciclo il morto si era dissolto, ma non era andato perduto. Quali altre vite potesse o dovesse vivere restava ignoto. Ma era la sua individualità vitale, la sua forza mostrata in vita a renderlo capace di vivere l’aldilà che avrebbe incontrato. Le azioni “di un giorno”, dunque effimere, manifestate in questa vita, in giornate piovose e fredde o assolate umide e caldissime, in giornate di dolore o di gioia, quelle azioni raccontavano l’essere umano e lo raccontavano per la sua animalità mortale, per ciò che lo rendeva unico ma uguale a tutti, ossia individuo ma al tempo stesso disindividuato nella sua animalità mortale, un’esperienza di perdita dell’individuazione che probabilmente ciascuno poteva fare con facilità assumendo filtri non magici ma dotati della capacità di far perdere la sensazione di essere se stessi al punto di sentirsi parte della natura e dell’animalità – rituali accompagnati da piante che sono ancora ben conosciuti da queste parti.

Ecco Nietzsche e l’origine della tragedia, ecco il ciceone, ecco i riti di iniziazione e il ciclo e l’animalità di cui facevano esperienza e parlarono con tanta ambiguità i cosiddetti Presocratici. Tutto si tiene in fondo. Tutto ci spinge sempre alla stessa fonte originaria.

Pensavo questo mentre attraversavamo la strada del páramo di Puracé. I chilometri a passo d’uomo fra Isnos e Palatarà sono volati via in un istante. Il mio amico guidava com maestria. Ripeteva: “ma come avranno fatto a orientarsi fra questa selva così fitta gli antichi? Salivano sugli alberi e guardavano il cielo per cercare le stelle?” Io non ho detto nulla. Ma in quel momento mi è parso che orientamento fosse una parola inutile in una dimensione dominata dall’idea della individualità e della disindividuazione. Millenni in cui la cultura San Agustín produsse un’idea analoga a quella che è alle origini del nostro pensiero. Un’idea che dopo secoli non ha nulla di passato, perché appartiene a ogni tempo e ogni spazio.

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Matteo Nucci (Roma, 1970) è scrittore, oltre che aficionado. Negli anni Novanta a El Espinar, durante una notte interminabile, vide vaquillas correre nella plaza. Era l'inizio della febbre tauromachica

2 COMMENTI

  1. Buon giorno, interessantissimo il suo articolo. A proposito della sua ultima riflessione in chiusura, sollecitata dall’intertigativo dell’amico, mi domando : il significato simbolico di tutta questa cultura pre-colombiana è di tipo “ontologico” essere o non essere… Quindi secondo lei non è mai presente una dimensione legata alle migrazioni, ai mestieri agricoli di sopravvivenza o anche ai fatti/accidenti della vita mortale e al proprio senso di precisa appartenenza geografica a un luogo. Le chiedo anche se per caso esistano dei riferimenti astrologici… Nella nostra cultura occidentale i glifi zodiacali mantengono spesso il “doppio animale-uomo” che si lega al percorso di individuazione nella eterna ciclicità… Insomma una domanda caotica anche alla ricerca di qualche parallelismo… Grazie

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