Il rito sorge ancora

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Pablo Picasso, Corrida en Arles, 1955.

La nuova temporada è alle porte. Si riaprono ferite e polemiche. Come sempre. A farla da padrona, come sempre, è l’ignoranza circa la stessa natura del rito tauromachico. Così, con la sua penna divina, il brio allegro del viandante sempre in cerca, spiegò il fenomeno Max David nel suo magnifico Volapié.

Per queste buone ragioni gli spagnoli non gradiscono, in fatto di tori, l’nteressamento degli stranieri e tanto meno degli estranei. In questo loro sentimento vi è la diffidenza dell’iniziato verso il neofita; vi è il timore dell‟equivoco e una sorta di ritegno sacerdotale quasi geloso e pudico. Vi è soprattutto il dubbio, abbastanza logico e fondato, che l’estraneo, vittima dei banali disgusti che la corrida provoca in tutti inizialmente, giudichi gli spagnoli in conseguenza, ad esempio, delle pene che il toro passa durante la giostra. Non si capisce bene il perché, ma il turista parteggia sempre per il toro e non per il torero. Dice: povero toro – non dice mai: povero torero. Eppure uno degli aspetti più interessanti della corrida, l’euritmia della lotta, la preparazione della materia bruta (il toro) all’opera plastica (il passo del torero), è costituito dalla continua ansiosa ricerca di un equilibrio fra le esorbitanti energie del toro, la sua intelligenza, la sua saggezza, il suo poderoso istinto, con le povere forze e talvolta la povera intelligenza del torero.

Questo equilibrio non può essere raggiunto che dosando sapientemente duri colpi di picche e coppie di banderiglie. La corrida è una lotta e come tale deve lasciare ai lottatori egual numero di possibilità. Nonostante le picche e le banderiglie ed i cavalli sventrati, all‟ultimo terzo della corrida, toro e torero hanno su per giù le stesse probabilità di morire. Materialmente il toro ha il potere di sbarazzarsi di tutti i suoi nemici in pochi secondi: quattro cornate che non gli costano un soldo, e tutto è fatto. Il toro è più forte di tutti i toreri messi insieme ed è armato di due spade assai puntute invece che di una. Né gli spagnoli trovano giusto che noi, quotidianamente carnivori, s’abbia per il toro maggiore pietà che per i capretti o i buoi. Come se gli altri popoli non macellassero tori, magari dopo averli rèsi incapaci d’amare. Questa si che è una vergogna. Gli spagnoli, almeno, lottano col toro faccia a faccia, si misurano con lui, talvolta lo dichiarano vincitore e lo lasciano vivere in pace. E quando muore bene, il toro spagnolo muore coi dovuti rispetti: applausi, giro d’onore nell’arena, fiori, fotografie, imbalsamazione e, spessissimo, un invidiabile posticino nella storia della tauromachia. Lo portano via dalla plaza tra infiocchettate e imbandierate mulette al suono di una marcia.

Ma a parte la questione del toro, gli spagnoli temono di essere fraintesi nell’interpretazione del rito. Un poco pagano ed un poco anche cristiano, la corrida è un rito; come tale tende ad accostarsi sempre più a certe forme che direi liturgiche, a prenderne l’atmosfera, liberandosi da quegli aspetti e da quelle manifestazioni che potrebbero pregiudicare la sua solennità, il suo intimo contenuto morale o infirmare la santità della plaza.

Sono infatti scomparsi col tempo tutti gli spettacoli che normalmente si svolgevano nelle arene, pur avendo solo qualche lontana affinità con le corride: lotte di fiere e tori, parodie, donne torere, quasi non esistono più. Le stesse corride comiche sono state relegate alle ore notturne. È rimasto il rito, perfettamente delineato. Esistono fra l’altro molte affinità fra la chiesa e l’arena. Il tempio sa di morte, come l’arena; però il tempio sa di morte triste, piangente, angosciosa. Non è la stessa morte che volteggia sul cerchio dell’arena; questa è una morte buona ed eroica, sbrigativa e solare. È una morte semplice senza catafalchi, senza turiboli e senza lamentazioni. È la sorprendente morte dei combattenti. Non ho mai visto toreri morti, però ho visto molti soldati morti e la fotografia di Joselito agghiacciato sul lettino della plaza di Talavera. Lo stesso volto di un soldato, stupito, forse non ancora convinto che qualcosa di grave gli sia successo. Si fa assai presto a morire nell’arena; tanto presto che ben pochi si accorgono dell’incidente. Per un’impercettìbile mossa della testa del toro, per un movimento che il toro non avrebbe dovuto fare, il torero va leggerissimo per l’aria, come schizzato da una molla, o lanciato da un arco o soffiato da una cerbottana. Sembra che voli, sembra una cosa piccolissima, ha la trasparenza della libellula, sembra un prodigioso insetto, una larva senza ali, con quel suo vestito d’oro e di seta. Il torero cade brillando come un pugno di diamanti e di rubini buttati al vento.

Rito, la corrida comincia con le preghiere dei toreri nella cappella della plaza e finisce con un sacrificio, quello del toro, oppure quello del torero, non importa, pur che venga una morte qualsiasi.

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