Ferreri, Malerba e una passione dimenticata

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Marco Ferreri è stato uno dei registi italiani più eccentrici del Novecento. Il suo capolavoro è La grande abbuffata del 1973: un cast straordinario (Marcello Mastroianni, Philippe Noiret, Michel Piccoli, Ugo Tognazzi) e una storia a cui va stretta qualsiasi definizione. Eversivo, grottesco, rivoluzionario e antiborghese, il film, fischiatissimo nella sua presentazione a Cannes, recensito con ammirazione da una pletora di intellettuali, ha superato la prova degli anni e ci si mostra oggi, fuori dalla temperie culturale in cui venne pensato e girato, come una storia di amore e morte, di vitalismo, amarezza e ribellione a ogni meschinità. A sceneggiare il film assieme a Ferreri fu Rafael Azcona, spagnolo di Logroño che Ferreri aveva conosciuto a Madrid quasi vent’anni prima. Era la Spagna franchista del 1955 quella in cui arrivò Ferreri allora ventisettenne al culmine di mesi passati in viaggio fra Italia e Francia. Determinato a farsi regista, dopo due comparsate in film di Lattuada, Ferreri aveva accettato l’incarico di rappresentante per una ditta di obiettivi e a Madrid s’installò in un piccolo ufficio dove sosteneva di essere pronto a una carriera come produttore cinematografico. Fu qui che trovò Azcona, giovanissimo collaboratore di una rivista umoristica con ambizioni da scrittore. Quattro anni dopo sarebbe uscito il loro film, El pisito, per noi L’appartamentino, primo di una lunga serie. Nel frattempo, però, fra i mille interessi di un uomo colto e irriverente, aveva cominciato a lavorare il verme infettivo della passione per i tori.

Della fiesta nacional a Ferreri però non interessava certo il côté folkloristico in quegli anni sbandierato fino alla nausea dalla retorica franchista. Ne abbiamo una prova in Corrida! documentario che realizzò nel 1966 per Rai Due, assieme a un altro scrittore che ebbe molto a che fare con il cinema: Luigi Malerba. In due puntate, Ferreri mise assieme materiale di repertorio, fotografie e parti girate per l’occasione, raccontando con l’aiuto magistrale di Malerba (voce di Achille Millo) la storia della corrida dalle origini. Nel film, il tradizionalismo allora dominante viene spazzato via da immagini che catturano per la bellezza e la durezza che da sempre rappresentano l’intreccio artistico-rituale capace di sconvolgere e conquistare nella forma di tauromachia moderna più diffusa. Da Belmonte a Manolete, da Ordóñez a El Cordobés. La passione di Ferreri è contagiosa. Dissacrante rispetto alle mode del tempo, tocca le corde più vere dell’arte. Si verifica così un fenomeno molto particolare esemplare ne Il momento della verità di Francesco Rosi, uscito solo un anno prima. È un non spagnolo  che riesce a cogliere lo spirito profondo di un’arte allora esclusivamente spagnola. In un’intervista a Tatti Sanguineti, Azcona spiega bene il modo in cui Ferreri lo aveva iniziato alle corride. “Era un appassionato di tori e mi portò a vedere un film messicano assurdo in cui il protagonista era un torero con i baffi!” I baffi di un torero. Niente di più strampalato. Divertito, dissacrante, appassionato. Con questo sguardo Ferreri riusciva a cogliere ciò che alla retorica trionfalistica sfugge di continuo.

Lo stesso sguardo accomunò Ferreri a Malerba. Scrittore fra i più noti del Gruppo 63, Luigi Malerba era coetaneo di Ferreri e con lui condivideva l’ansia della sperimentazione e l’attitudine a guardare oltre l’apparente sacralità delle tradizioni. Niente di meglio che la corrida, allora. Su cui lo scrittore lavorò con grandissima cura non soltanto per il documentario di Ferreri. È un grande piacere, quindi, trovare finalmente in libreria una raccolta di scritti di varia origine a cui Malerba lavorava prima della morte e che ora vede la luce grazie alla cura di Gino Ruozzi. In Sull’orlo del cratere (Mondadori, pp. 238) gli aficionados italiani oggi perseguitati come carbonari, potranno leggere un brevissimo racconto intitolato Due toreri in cui lo scrittore presenta, con cura unica, attenzione da critico taurino e minuziosità nella ricostruzione storica, due figure di matador: Rodolfo Gaona e Manuel Granero. Del primo Malerba ci racconta l’evoluzione artistica e la brillantezza nel dar forma a un passo esistente che sarebbe passato alla storia con il suo nome – la gaonera – ma ci spiega soprattutto come gli divenne difficile e quasi impossibile uccidere tori al termine del suo lavoro di arte. “Giocava con il toro, se lo tirava dietro oltre i tempi previsti dal regolamento come un direttore d’orchestra può allungare il ritmo di una composizione, ma quando arrivava il momento della verità, quando si trattava di impugnare la spada e uccidere, la sua mano tremava, tutto il suo animo fremeva di ribellione. Alcuni vecchi aficionados giurano di aver visto, da dietro la barrera, luccicare di lacrime i suoi grandi occhi bovini”. Quanto a Granero, Malerba ci racconta l’eredità a cui lo avevano destinato gli aficionados privati della figura di Joselito, il grande matador morto nel maggio del 1920. “Prima di dedicarsi ai tori, Granero aveva suonato il violino con passione, con talento. Il giorno in cui abbandonò il violino e impugnò la spada, i suoi gesti rimasero aggraziati e il suo braccio leggero e lesto come se continuasse a suonare lo strumento. Il pubblico amava nel giovanissimo Granero “el sentimiento del arte”, la dolce malinconia dell’artista, la figura snella di ballerino, la nobiltà cavalleresca e gentile come aveva amato in Joselito la perfezione dello stile e in Belmonte l’incarnazione diabolica del genio”. Malerba conosce però il putrido sottobosco che ha sempre proliferato nell’ambiente taurino. E lo sottolinea sia nel caso di Gaona che di Granero, spinto secondo lui al suicidio dalle “lodi dei critici taurini”. Perché una specie di suicidio fu la morte del giovanissimo “Werther della corrida” che anziché dedicarsi solo all’arte (e al magnifico “pase de la firma” di sua invenzione) fu obbligato a diventare temerario e sprezzante come “non si addiceva alla sua natura”. Il 7 maggio del 1922 quando le corna di Pocapena gli aprirono il cranio contro le assi della vecchia plaza di Madrid dove oggi sorge un centro sportivo, la Spagna fu costretta a chiedersi se avesse “perso un torero o un violinista, un virtuoso della spada o dell’archetto”.

Ma come mai Malerba ci parla di Gaona e Granero in queste quattro pagine di perfezione tecnica e storica? Lo rivela una breve e secca frase iniziale che esalta la grandezza di scrittore di questo italiano attento alle più curiose vie in cui si manifestano le profondità dell’animo umano.

“Offro questi brevi appunti su due toreri celebri all’estensore futuro di una storia delle vocazioni sbagliate”.

(grazie a Carlo Talei Franzesi per i suggerimenti)

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