Quando un allevamento chiude

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Spesso, quando discutiamo della sopravvivenza della forma di tauromachia che chiamiamo corrida, ripetiamo un argomento che agli inesperti suona sorprendente: se chiudessero le corride scomparirebbe l’animale.

Chi mai alleverebbe un toro da lidia se non per ciò che fa incondizionatamente, ossia aggredire? Dove troverebbe spazio un animale che per vivere ha bisogno di spazi immensi? Chi glieli metterebbe a disposizione fuori dai recinti in cui ciascun capo ha bisogno almeno di due ettari di terreno?

Ma gli inesperti non conoscono neppure la differenza fra toro selvaggio e toro domestico e non sono stati mai in un allevamento. Molto peggio è che ciò capiti fra chi invece i tori li conosce bene, li ama, e non vorrebbe mai vederne scomparire un esemplare se non a causa delle lotte tipiche del campo aperto o della lotta in cui la sua esistenza culmina, ovvero la corrida.

Eppure, il mondo dei tori fa strage ogni anno. Non di capi uccisi nell’arena. Ma di capi mandati al mattatoio perché non ha più senso allevarli se non vengono toreati. Se non vengono comprati, cioè. E non viene loro offerto un epilogo degno come è la lotta nella plaza de toros.

Di questi giorni è la notizia che i capi dell’allevamento del Conde de la Maza sono finiti in un mattatoio. L’allevatore sivigliano, Leopoldo de la Maza Ybarra, conte de la Maza, si è arreso. “I toreri toreano quel che vogliono toreare. Gli impresari comprano quel che vogliono comprare”. La stanchezza ha prevalso.

Il ferro storico e amatissimo da molti appassionati ha corso la sua ultima corrida a Cenicientos il passato 15 agosto. Ultimo successo in una plaza di prima categoria fu quello di Siviglia, nella corrida del Corpus del 2014, quando un toro di enorme qualità scosse l’animo degli spettatori in una gran faena di Pepe Moral. Particolare da tenere a mente: il toro entrò in pista come sobrero.

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