Carne di toro

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Quante volte è capitato, a noi aficionados, di ripetere agli ignoranti che il toro ucciso nell’arena non è carne perduta ma si mangia? Pare assurdo, ma tocca ripeterlo. Si mangia. La carne di toro come quella di qualsiasi altro bovino allevato nel mondo occidentale si mangia. Solo che, in questo caso, il toro cresce libero, corre quando desidera farlo, vive in spazi immensi (in media due ettari per ciascun capo) una vita lunga e selvaggia. Non viene pompato per gonfiare la carne nel più breve tempo possibile. Non muore in un macello dopo sei mesi o un anno di vita. Non vive in spazi angusti una vita breve e inappropriata. Si chiama allevamento intensivo, quello. E qui siamo agli antipodi.

Ora, finalmente, nell’epoca dell’animalismo antiumanista, se ne accorge anche chi non ha grandi interessi nella corrida in quanto tale. La carne di toro è sana. Generalmente assai buona. Preziosa. E poiché domina l’ossessione della provenienza di ciò che mangiamo, non esiste caso migliore di carne di un animale di cui non soltanto si sa la provenienza territoriale ma addirittura i nomi dei genitori, il suo stesso nome e la data di nascita. Forse non amiamo gli estremismi della cucina dei nostri tempi, ma dobbiamo essere felici se finalmente anche loro se ne sono resi conto.

Lo racconta in un bell’articolo uscito sul Guardian da Sevilla, Venetia Thompson. Indagando fra appassionati, esperti, cuochi, macellai e veterinari, gente non necessariamente taurina, anzi in alcuni casi disinteressata fino al punto da non considerare affatto un’arte la corsa dei tori, la giornalista spiega a tutti come sia sempre più di moda portare in tavola carne di toro. Come sia sempre più frequente la comprensione che il trasporto e il macello di uno dei milioni di bovini uccisi nei mattatoi del globo sia assai più stressante per l’animale che la morte nell’arena. Ben venga la moda, ogni tanto.

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