Altare mobile

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Olio su tela di Angel Maria Garrido Perez.

Sto guardando per l’ennesima volta Hable con ella di Almodóvar per approfondire la lettura dei messaggi nascosti nelle gestualità dei personaggi, quando l’attenzione si ferma sul minuto 21.30. La scena si svolge nella stanza di un hotel in cui una donna, una torera, si sta preparando prima di entrare nell’arena. È il topos della vestizione durante la quale i vissuti si amplificano, la memoria s’incarna nell’ambiente corporeo ed extracorporeo, sui paramenti, sulle stoffe, sui muri. Un luogo dove solo pochi possono sostare. Gli oggetti devono avere una collocazione precisa, l’aria diventa rarefatta come davanti a un altare. Le immagini della pellicola scorrono con una velocità moderata, è impossibile non notare un angolo della stanza, un po’ nascosto, dove su un comò è posato un trittico rosso scuro su cui sono applicate immagini di Santi, della Vergine e di Cristo e da cui pendono rosari di bellissima fattura. Questo scrigno di preghiere, la capilla del torero, è illuminato da piccole candele che disegnano un semicerchio a ridosso dei tre pannelli immacolati: osservo la lentezza con cui vengono accese a una a una con un fiammifero appositamente conservato per questo rito, ammiro la febbre con cui vengono baciati e risistemati i santini. Ogni gesto, ogni oggetto, ogni sguardo è un’invocazione, un raccomandarsi per sé e per i propri cari che attendono il volere del destino a casa o in chissà quale posto lontano. Secondo l’usanza le candele vengono lasciate vive per tutto il tempo dell’assenza fisica del torero come augurio per il suo ritorno e come simbolo di veglia sul coraggio che non deve mancare. Se il toro verrà ucciso, si compirà la buona sorte e l’altare verrà conservato in una valigia di cuoio finemente ornata per essere trasportato in tutti gli hotel delle città in cui il torero dovrà combattere, come custodia dei “lari” protettori dell’identità personale e di famiglia, perché oltre a San Pedro Regalado, alla Vergine de La Vega, alla Vergine Addolorata, alla Vergine della Esperanza de Macarena, alla Vergine del Pilar, al Cristo de Torrijos, a San Michele Arcangelo, a San Raffaele, ci sono anche le fotografie di familiari ancora in vita o defunti, e una quantità variabile di medaglie d’oro che allontanano il male. In quell’angolo santo possono essere messe a nudo le paure, le afflizioni, i tentennamenti, il terrore di fallire. Quegli oggetti di carta, d’oro e di cera raccolgono affetti, conforto, sostegno; soprattutto quelli donati da chi si ha stima e un buon ricordo. La necessità urgente di sentire vicino il sacro al punto da trasportarlo ovunque, si pone in linea di continuità con la compenetrazione nei luoghi santi presenti all’interno o vicino all’arena. Il passaggio dal dentro al fuori  e dal fuori al dentro della capilla è la soglia che lega indissolubilmente il torero a un aldilà familiare. Esistono i propri Santi e i propri Morti, che conoscono molto bene il temperamento del loro protetto. Loro sanno come rassicurare, come infondere calore: questo aspetto non è di poco conto, quando si sta per mettere a rischio la vita. La struttura della piccola cappella portatile richiama quella di certi altari votivi: colpisce la potenza espressiva delle sue parti in miniatura così minuziosamente ricche di dettagli che formano la mappa delle speranze in corso e di quelle già ripagate con gli ex voto. Durante la sua complessa fase preparatoria il torero non interrompe mai la concentrazione nella preghiera, neanche quando arriva il momento di vestire il corpo con la corazza di specchietti, seta e broccato. Come un piviale in velluto cremisi, la veste di luce preserva la forza e conduce lontano dalla visuale dell’altare mobile che, in ogni caso, continua ad albergare in un posto intimo, molto simile all’angolo della camera di un qualunque hotel. Ad esempio Joselito  era devoto alla Vergine de la Macarena, andava a trovarla spesso; ogni volta che entrava nel ruedo le chiedeva aiuto per salvargli la vita; addirittura le donò delle mariquillas di smeraldo, che non bastarono tuttavia a risparmiarlo nell’ultima corrida. È anche evidente come il confine tra devozione e superstizione sia indefinibile e confuso. A corredo dei gesti dedicati alla propiziazione della benevolenza dei Santi, vengono osservate delle consuetudini di altra natura: nessun oggetto sul letto, nessun abito di colore giallo, il traje de luces piegato in un certo modo sulla sedia e  le scarpe sotto. Alcuni toreri preferiscono entrare nell’arena  per la prima volta col piede sinistro, altri col piede destro, altri usano tracciare una croce sulla polvere, altri ancora toccano e baciano con la mano il legno prima del paseíllo; tutti baciano le medaglie che tengono al collo e si segnano. Ogni torero pare abbia il proprio amuleto, il proprio porta fortuna. Rafael El Gallo, ad esempio, portava un anello con il numero tredici. Ora, che si tratti del bisogno scaramantico di non interrompere la tradizione o di vera fede, davvero è difficile da sapere. Quello che importa è che i segni e i movimenti esatti costituiscono una protezione immateriale contro la morte. C’è un attaccamento tramandato a queste gestualità legate agli oggetti e ai luoghi, così forte che è possibile immaginarne perfino una vitalità interna: quasi siano anch’essi destinati a fornire risposte una volta toccati. Come non avere, dunque, un rapporto profondo con le cose che sono state pensate e costruite per garantire salvezza o per darne l’illusione?

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