Perché ci vado?

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Photo M. Meschiari

Perché ci vado? Rispondo con alcune note scritte altrove e che ripropongo qui tali e quali perché, onestamente, non saprei fare di meglio.

“Come in un gioco tra animali, lo scopo della corrida è unicamente la corrida. Per chi è nel pubblico, almeno durante il suo accadere, essa è priva di finalità pratiche, economiche, semantiche, l’unica cosa che conta è la sua riproduzione, perché la corrida fa esistere un modello e la sua sopravvivenza, ma nessuno scopo, nessun rituale di trasformazione identitaria, nessuna epica collettiva (checché se ne dica), solo innumerevoli mutazioni interne senza nessuna direzione: un dove senza un verso, e senza un senso. L’arena, come una cellula eucariota, tende solo a replicare se stessa, non ha qualcosa da dire sul destino o sul senso della vita. Allora perché ci si va? Perché è una perlustrazione emozionale, cognitiva, creativa, come un gioco di bambini nel bosco, lontano da ricompense e rimproveri, da giudizi morali e da regole, se non quelle autoreferenziali che lo guidano”.

“A dispetto della sensibilità dei più, la questione etica non è di grande aiuto per spiegare come mai certa gente vada a vedere una corrida. Quello che conta, invece, è che l’esistenza dell’arena, per quanto a caro prezzo, cioè al costo di sofferenze e di vite animali, apre uno spazio di disturbo dove si aggrumano e vengono a galla alcuni tra i non detti più scomodi della contemporaneità. Tra questi, appunto, il come posizionarsi di fronte all’animalità, in un’epoca in cui tra la bistecca e il barboncino non c’è più spazio per altri modi di essere animale. E non occorre enfatizzare che dal Neolitico a oggi abbiamo vissuto una dolorosa storia fatta col silenzio di miliardi di animali sottomessi alle nostre priorità e ai nostri capricci (domesticazione e imprigionamento per garantirci carne, derivati, forza-lavoro, locomozione, corpi su cui sperimentare tecnologie e farmaci, compagnia forzata, intrattenimento). Il punto è che nel paradosso etico per cui tutti amiamo gli animali e contemporaneamente il 99% delle culture della terra considera accettabile e auspicabile il loro asservimento, la corrida, la caccia e i ritrovi animalisti sono l’unico spazio nella modernità globalizzata in cui la coscienza di questo costo morale non viene rimossa. Anzi, si rinnova a ogni singola morte di animale, una morte messa al centro, svelata, e quindi da bandire o, come pensano alcuni, da difendere per quello che è. Perché ovviamente non si tratta solo di animalità, ma di come riposizionare l’uomo in rapporto a se stesso e al castello sociale”.

“Crudeltà. Sadismo. Tortura. Restare insensibili di fronte alla sofferenza e alla morte del toro. Godere di uno spettacolo impari in cui il toro viene ingannato, umiliato, tormentato. Infliggere al toro ripetute ferite non mortali e poi ucciderlo con una tecnica incerta, raramente fulminante, molto spesso al secondo, al terzo, al quarto tentativo. La cosa che m’inquieta maggiormente è che in dieci anni di ricerca non ho mai incontrato nell’arena una persona che mostrasse segni di crudeltà o sadismo nel senso morale e patologico del termine, non ho mai visto nessuno che di fronte a quello che accadeva laggiù vivesse voluttuosamente il sangue come chi gode a spiare la tortura di un inerme. È inquietante, perché significa che nell’arena accade qualcosa per cui il dolore inflitto all’animale, lontano dall’essere negato, viene comunque elaborato emotivamente, e messo in secondo piano per una ragione considerata superiore. La gente con cui ho parlato sembrava gente normale, era gente normale, eppure aveva deciso di accettare la sofferenza e la morte dell’animale come un fardello tollerabile, come un prezzo necessario per vedere qualcos’altro“.

Qualcos’altro? Che cosa? Dopo vari anni, con alti e bassi, con dubbi e ritorni, ho cominciato a darmi una risposta. Vado alla corrida perché è l’unica cosa che conosco che non mi accontenta mai. Che non mi fa mai sentire al sicuro. Che disturba l’io autoassertivo. Che mi ricorda che tutta la vera bellezza ha un prezzo di vita incalcolabile.

Matteo Meschiari, Uccidere spazi, Quodlibet 2013, 80 pp., 12 euro, ISBN 978-88-7462-569-7.

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(Modena, 1968) è antropologo e scrittore, oltre che aficionado. Ha visto la sua prima corrida ad Arles, il 9 aprile 2004: Javier Sánchez Arjona per Enrique Ponce, El Juli, José Mari Manzanares. matteomeschiari@uominietori.it

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