Paura

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I toreri sostengono che per liberarsi della paura c’è un’unica soluzione: usare la paura stessa e mettere paura alla paura.

All’inesperto, questo può apparire uno di quei paradossi altisonanti a cui si consegnano uomini che hanno fatto di un certo atteggiamento etico-estetico la loro ragione di vita. In teoria, c’è del vero: chi vuole farsi torero deve incarnare un’attitudine esistenziale che ha un aspetto interiore indissolubilmente legato a un aspetto esteriore, un intreccio morale che va sotto il nome di torería. Tuttavia, quando l’inesperto parla di quell’atteggiamento etico-estetico, in genere si riferisce a tutt’altro: all’arroganza e alla spavalderia che il folklore di nacchere, ventagli e chitarrine attribuisce all’immagine tanto stereotipata quanto superficiale e menzognera del torero. Ma il torero non è arrogante di fronte alla paura. Non la sottovaluta. E non finge di non provarla. Le cose sono molto più complicate.

Per spiegarsi con una certa semplicità e assoluta universalità, si potrebbe ricorrere all’etimologia del termine. Il sostantivo femminile italiano è originato dal latino pavor che significa “sgomento”, “ansia”, “angoscia”. Pavor a sua volta proviene dal verbo greco paio che, come l’indoeuropeo pat-, indica l’atto del percuotere. Chi viene percosso è sbigottito, atterrito (latino: paveo). Ora evidentemente per affrontare lo sbigottimento c’è un’unica strada. Essa non ha a che fare con la fuga. È impossibile fuggire ciò che dentro ci percuote, ma lo si può percuotere. E per percuoterlo bisogna viverlo. La paura si vince mettendole paura.

So bene che anche questa veloce discussione etimologica può lasciare interdetti e frustrati. A contare, in questi casi, sono solo gli esempi. Ricorrerò allora all’esempio più antico e universale, l’esempio anche più bello letterariamente e umanamente. Quello contenuto nell’opera che è all’origine della nostra letteratura occidentale: la paura di Ettore, nell’Iliade.

Tutti conoscono la storia. Ettore è il grande eroe troiano, figlio del re Priamo, fratello del pavido Paride che ha sedotto Elena di Sparta dando origine alla guerra. Da quasi dieci anni infatti gli Achei, capeggiati da Agamennone sono sotto alle porte di Troia. L’assedio è continuo e l’Iliade ne racconta poco più di cinquanta giorni, i giorni in cui Achille litiga con Agamennone, smette di guerreggiare, eppoi è costretto a rivestire le armi per vendicare l’amico e compagno Patroclo che viene ucciso da Ettore. Lo scontro fra Achille e Ettore è una delle perle assolute del poema. E si apre con la paura, la grande paura di Ettore.

Per una serie di circostanze, infatti, tutti i Troiani sono rientrati in città, ben protetti dalle Porte Scee. Solo Ettore è rimasto fuori mentre Achille come una belva assetata di sangue è in arrivo. Ma lo scontro non è affatto inevitabile. Ettore potrebbe rientrare. Avrebbe tutto il tempo per farlo e sia Priamo che Ecuba, madre di Ettore, lo implorano. Priamo, infatti, dall’alto delle mura, ha visto Achille arrivare come Sirio, l’ambigua stella estiva che con il suo fulgore scintilla e abbaglia e intanto porta sventure, visto che risplende spesso mentre le febbri corrono fra gli “infelici mortali”. Sa dunque che per Ettore ci saranno poche possibilità. Ecuba invece non sa, ma come ogni madre sente. Non solo grida, allora, ma addirittura mostra il seno che ha allattato Ettore da bambino per convincerlo a tornare nel suo grembo di protezione. Ma Ettore non ascolta nessuno, neppure i suoi genitori.

I cantori omerici, però, non ci mostrano un uomo pieno di certezze. Nient’affatto. Ci mostrano un uomo preso dalla più grande paura, ossia la paura della morte. Irremovibile però nel voler fare i conti solo con se stesso. Tanto che quel che segue è un dialogo interiore in cui Ettore si fa domande e si dà risposte. E facendo questo dà a noi le risposte di cui siamo in cerca.

Seguendo la traduzione di Giovanni Cerri, queste sono le sue parole (Iliade, XXII, 99-130):

“Misero me! Se rientro nella porta e dentro le mura,

Polidamante per primo mi farà il suo rimprovero,

lui che in città m’esortava a riportare i Troiani

in questa maledetta notte, quando Achille divino si è mosso.

Ma non gli detti retta; e sarebbe stato assai meglio!

Rovinato adesso il mio popolo per la mia sventatezza,

mi vergogno di fronte ai Troiani, alle Troiane dai pepli fluenti,

che non dica qualcuno, benché peggiore di me:

“Ettore, presumendo della sua forza, ha distrutto l’esercito”.

Diranno proprio così: sarebbe allora per me assai meglio,

battendomi faccia a faccia, o uccidere Achille e tornare,

o essere ucciso da lui gloriosamente sotto le mura.

Se deponessi invece lo scudo ombelicato

e l’elmo pesante, e appoggiata al muro la lancia

andassi incontro io stesso ad Achille perfetto,

gli promettessi che Elena e con lei le ricchezze,

tutte quante Alessandro sulle navi ricurve

portò via con sé a Troia, quello che della guerra è stato il motivo,

restituiremo agli Atridi, e altro a parte daremo

agli Achei, di quanto possiede questa città;

esigerei dai Troiani in quel caso il giuramento degli anziani

di nulla nascondere, ma dividere tutta in due parti

quanta ricchezza la nostra bella città racchiude in se stessa…

Ma perché queste cose m’ha detto il mio cuore?

Temo che se vado a supplicarlo, non avrà compassione di me

e nemmeno rispetto, mi scannerà indifeso come una donna,

una volta che io abbia deposto le armi.

Non è più possibile ormai conversare con lui

di questo e di quello, come un ragazzo e una ragazza,

come tra loro ragazza e ragazzo conversano.

Meglio attaccare al più presto battaglia; vediamo

a quale dei due l’Olimpio concederà la vittoria”.

Innanzitutto Ettore fa i conti con la propria vergogna. Ha sbagliato qualcosa e lo sa. E immagina che fuggendo si coprirebbe di ridicolo. Generalmente gli studiosi credono che qui stia prevalendo una mentalità per noi perduta, quella eroica, arcaica, in cui più di ogni altra cosa vale la fama, ovvero l’opinione che gli altri hanno di noi. In effetti, si tratta di questioni metastoriche. La vergogna è un sentimento che ci mette di fronte alla nostra interiorità e alla nostra “verità”, che ci spinge a capire da soli, in solitudine, cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Un aspetto della vergogna che in italiano è poco apparente, visto che usiamo il termine solo per indicare l’emozione negativa, ma che gli spagnoli riconoscono immediatamente: chi ha vergüenza è l’uomo nobile, dignitoso, ovvero chi sa vergognarsi delle proprie azioni in pubblico o in privato e per questo tende a non reiterarle. È l’uomo che fa costantemente i conti con se stesso. In italiano una debole eco di questo ragionamento sta, per antitesi, nell’uso della parola “svergognato”. Chi non possiede la vergogna, il senso della vergogna, il nobile senso di realizzare se stesso.


Ma più interessante è la seconda e più lunga metà del dialogo interiore di Ettore, quella in cui egli considera la possibilità di venire a patti con Achille, di offrirgli una possibilità di pace. Se la fuga è impossibile forse questa può essere la soluzione per evitare lo scontro e superare la paura che sta facendo tremare l’eroe troiano? La risposta è una domanda retorica: ma cosa mi dice il mio cuore? Inutile ragionare così, insomma. Achille non accetterà. Ma anche se accettasse? Chi potrebbe dire cosa farà? Qui Ettore si rende conto che non può fare affidamento con nulla che sia fuori dalla sua determinazione. Tutto ciò che è estraneo a lui stesso – uomini e cose – non rientra nel suo controllo. Non può affidarsi alla contingenza né alla volubilità di chi lui non è. E dunque va incontro alla sfida. E finalmente vince la paura.

Come ha messo in fuga la paura che lo sbigottiva e lo rendeva incerto? Con la paura di non realizzare la propria interiorità, affidandosi a ciò che non è in suo potere. Questa vera paura deve prevalere. Questa paura mette in fuga la paura del fallimento che gli impediva di guardare con chiarezza alla sfida.

A chi deve affrontare la più grande paura, Ettore, come ogni grande torero, dice una cosa sola. Che qualsiasi paura venga da fuori, dall’ignoto, dall’incontrollabile, noi dobbiamo provarla, dobbiamo sentirla, dobbiamo viverla. E che solo vivendola sapremo ridimensionarla perché la sottoporremo al confronto con la paura di non essere noi a scegliere, di non essere noi a vivere la nostra vergogna, di non essere noi a prendere in mano il nostro cuore e correre avanti, venga quel che venga.

L’ultima parola di Ettore del resto è proprio questa. “vediamo a quale dei due l’Olimpio concederà la vittoria”. Venga quel che venga. Saranno gli dèi a decidere chi merita di vincere lo scontro. Il che equivale a dire che il risultato dipende da fattori che non sono in mano nostra. Ma quel che è in mano nostra, in mano nostra deve restare. Vinta la paura del fallimento, quel che sarà sarà.

Sono tempi duri, quelli che stiamo vivendo. Tempi di paure che vengono da lontano. Dall’ignoto. Ma Omero ci offre la chiave. La paura si vive e solo vivendola davvero la si mette in fuga.

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Matteo Nucci (Roma, 1970) è scrittore, oltre che aficionado. Negli anni Novanta a El Espinar, durante una notte interminabile, vide vaquillas correre nella plaza. Era l'inizio della febbre tauromachica

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