La tua specialità è chiedere dei morti. Fai sempre la stessa domanda: perché sei morto? In generale, fai quella domanda a tutto quanto esiste e morirà o è già morto. Ti piace parlare spagnolo, parlare in spagnolo, perché lo spagnolo ti serve per parlare con i morti.
Correte a comprare questo libro che lo scorso anno è stato giudicato da molti critici il migliore di Spagna. In italiano s’intitola In tutto c’è stata bellezza (trad. B. Arpaia, pp. 409, euro 19), ma Manuel Vilas lo ha initolato semplicemente Ordesa, come la località pirenaica amata da suo padre, dove bambino Vilas sentì per la prima volta, davanti a immense montagne, l’infinito di ciò che deve venire, delle infinite prospettive, assieme alla felicità del padre giovane e pieno di passione e tutto quello che la vita poi sconfessa, con la morte che è padrona di ogni cosa.
Tutto è morte in questo libro di Spagna. Tutto è morte spagnola. Quella morte inaccettabile e innaturale che non riesce a essere fine, non riesce a essere epilogo.
Allora capii il Barocco spagnolo, che è un’arte severa di adorazione della morte, in quanto la morte è la più riuscita espressione del mistero della vita.
Abbandonatevi alle pagine in cui Vilas, in brevi capitoli composti da frasi secche e apparentemente sconnesse, a volte intrise di una mistica poetica, a volte fradicie di prosa apoftegmatica, a volte semplicemente paradossali e incomprensibili, ma talmente lontane che le sentiamo nostre, proprio come ci capita di fronte al mistero della vita. Abbandonatevi. Non tentate di trovare un filo o una strada coerente nello struggente ritratto di una solitudine filiale, dell’orfano che non si dà pace, che non si capacita e non vuole ammettere la fine di un mondo, la fine dell’amore, la fine dei genitori e della loro memoria.
Troverete quel che viviamo tutti noi effimeri, esseri destinati a un giorno soltanto di vita, nel nostro sforzo insaziabile di dare un senso alla finitezza che da bambini immaginavamo infinita. Ovvero quel mondo in cui trionfa la morte come espressione perfetta del mistero della vita.
La morte dell’estate era orribile. Mia madre vedeva la fine dell’estate come un evento tragico, sacrilego. Chi osava uccidere l’estate? Odiava l’arrivo del cattivo tempo. Lei credeva nel sole. Era eretica, ha vissuto sotto i rituali del sole. Aveva un’ossessione per la luce e per prendere il sole. Il sole ed essere viva per lei furono la stessa cosa. Adorava l’estate. Adorava che facesse buio molto tardi. Accettava la presenza del sole come l’unica cosa degna di essere tenuta in conto; non ne era consapevole, ma nel suo amore per il sole e per l’estate cera un’eredità millenaria, un’eredità della cultura mediterranea.
Troverete infine quel che accomuna noi appassionati di tori. Quel che nel libro non c’è e non è neppure sfiorato. Forse Manuel Vilas, che voleva essere rocker e si è ritrovato scrittore, certo del proprio imminente fallimento e invece destinato a scrivere un libro che resterà, forse Vilas non condividerebbe. Non c’è l’ombra di un toro fra le pagine del suo capolavoro. Eppure io li sento correre. Respiro l’aria dei campi polverosi, dei fiumi di acqua fresca. Annuso l’odore di Ducados che impregnano bar anni Settanta pieni delle slot machines del dopo Franco e dei flipper della fine di Franco. Sento la vitalità della cerimonia di morte. Sento la morte che apre la vita come nel duende di García Lorca. Sento vibrare il rito con cui noi mediterranei, amanti del sole, ci rechiamo ogni anno a officiare la nostra cerimonia. E sento i versi di Bergamín e il suo genio indiscusso nello sfiorare le vette della musica silenziosa del toreo.
Mio padre, che è silenzio adesso, era già stato silenzio prima; come se sapesse che sarebbe stato silenzio, decise di essere silenzio prima dell’arrivo del silenzio, dando così una lezione al silenzio, da cui il silenzio uscì venato di musica.