Max David

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In vista della presentazione di Volapié nella Cervia di Max David, ecco uno stralcio del saggio a lui dedicato da Stenio Solinas per la nuova edizione del libro

Scriveva André Malraux che solo l’Inghilterra e la Spagna avevano dato al mondo due tipologie umane esemplari. «Il gentleman e il caballero». Ignorava che nell’Italia centro-settentrionale del Novecento se ne sarebbe sviluppata una terza, sia pure in un’unica copia, che entrambe le incarnava tingen- dole di una provincialità tutta propria. Si chiamava Max David, gentleman e caballero di Romagna.

Max all’anagrafe faceva Massimo, Massimino per gli amici. L’abbreviativo, con e senza cognome, aveva cominciato a usar- lo ventenne, siglando e poi firmando le prime cronache giorna listiche e poi se l’era cucito addosso nella campagna d’Etiopia, dove era stato il più giovane fra gli inviati, «l’enfant terrible della compagnia», stando al rapporto dell’Ufficio Stampa della Somalia stilato per il Ministero della Stampa e Propaganda: era impetuoso e collerico, elegante e spiritoso, un po’ sbrasone, il che ci rimanda al gentleman e caballero romagnolo di cui sopra. Nel 1938, con il varo delle Leggi razziali, quel Max che appena l’anno prima era persino nel titolo di uno dei capola- vori del cosiddetto «cinema dei telefoni bianchi», divenne di colpo esotico, l’accoppiata con un cognome dal sapore biblico fece il resto e Max David, che all’epoca era in Spagna a coprire la Guerra Civile per «La Gazzetta del Popolo», si ritrovò li- cenziato in tronco…Una successiva inchiesta rivelò che i David erano italianissimi, Max venne riassunto e per premio venne inviato per tre mesi in Tanganika a ricostruire le gesta eroiche del generale tedesco von Lettow Vorbeck nella Prima guerra mondiale. Da allora e sino alla fine del conflitto, a scanso di ulteriori equivoci, prese a firmarsi Massimo David…

Prima di approfondire un po’ la definizione di Malraux da noi corretta, vale la pena soffermarsi sul giornalismo di Max David, meglio, sull’epoca d’oro degli inviati speciali di cui egli brillantemente fece parte, talmente d’oro da potersi definire mitica, talmente mitica da rischiare di apparire incomprensibi- le e insieme incredibile a un lettore contemporaneo. Nato nel 1908, David era più vecchio di un anno di Montanelli e di En- rico Emmanuelli, e un anno più giovane di Piovene, ne aveva dieci meno di Malaparte, Orio Vergani e Vittorio G. Rossi, do- dici più di Giorgio Bocca. Dico dei nomi esemplari che sono un po’ la parte per il tutto e che racchiudono un arco cronolo- gico che ha il fascismo come suo precipitato. In quanto appar- tenente alla generazione di mezzo, quella per la quale il fasci- smo fu a lungo l’unico orizzonte conosciuto, David ne fu un esponente di punta, ma senza fideismi: gli mancava completa- mente quell’idea del «centauro» teorizzata da un altro suo grande collega, Giovanni Ansaldo, ovvero degli intellettuali tentati dall’azione politica, uomini di penna e uomini d’impe- gno, descrittori delle cose d’Italia e insieme costruttori. La fi- gura del «giornalista-centauro» è come un fiume carsico che scorre lungo tutta la nostra storia nazionale, da d’Annunzio al ’68 e poi ancora dopo, di pari passo con le situazioni di crisi e/o di stallo della società politica: il poeta-condottiero e il reto- re civile, il testimone esemplare e la coscienza critica, l’arcita- liano e l’antitaliano… Il fascismo vaccinò David da ogni suc- cessivo tentativo di aderire a una causa che fosse ideologica o che in quanto tale si intromettesse fra lui e la sua professione. Andava, vedeva e raccontava, David, ma non dava giudizi. Aveva naturalmente le sue opinioni, ma per quanto possibile le teneva per sé, non erano quelle il cuore del suo lavoro.

Alla fine degli anni Sessanta, questa sua equidistanza si ri- velò troppo fragile per non essere destinata ad andare in pezzi. Era al «Corriere della Sera» dal 1949, ne era stato per vent’an- ni una delle grandi firme, Suez e la Corea, l’Apartheid e i Mau Mau, la Cina comunista e Formosa, il conflitto arabo-israelia- no e la Conquista della luna… In via Solferino avevano però cominciato a soffiare venti di rivolta, ovvero di cambiamento, in linea del resto con quelli che andavano attraversando il Pae- se. La prima vittima illustre ne fu il suo direttore, Giovanni Spadolini, messo brutalmente alla porta. La seconda riguardò quello che era un po’ il suo gioiello della corona, vale a dire Indro Montanelli. La terza fu Max David, ma con un elemento paradossale che la dice lunga sul clima del tempo. La fuoriu- scita di Montanelli portò nel giro di un anno alla fondazione del «Giornale nuovo», di fatto portavoce di quella borghesia moderata che nel nuovo corso «progressista» del «Corriere» non si riconosceva, e costruito intorno a una redazione ideolo- gicamente coesa in tal senso. David si ritrovò fuori dal «Cor- riere», in una sorta di epurazione favorita dall’esodo della pat- tuglia montanelliana, i Corradi e i Cervi, i Piovene e i Bettiza, ma non per questo dentro la nuova avventura del «Giornale». Non era la sua, non era nel suo genere e nel suo stile e in più era una firma tanto ingombrante quanto onerosa per quello che voleva essere un giornale «d’opinione» e non d’informa- zione, controcorrente rispetto al vento ideologico dominante, finanziariamente fragile. È anche vero però che non ci fu alcun tentativo per convincerlo del contrario perché, come mi con- fessò una volta Mario Cervi, c’era nei suoi confronti una sorta di duplice gelosia professionale. Per i cinquantenni come lui, per i sessantenni come Corradi, per i quarantenni come Betti- za, David era un concorrente pericoloso e insieme il campione di un giornalismo d’antan, non più al passo con i tempi, in- somma. Per l’unico «grande vecchio» venerato come tale, ov- vero Montanelli (c’era per la verità anche Piovene, ma era già gravemente malato e morì a «Giornale» appena fondato), Da- vid era in fondo, per prestigio, esperienza, frequentazioni, l’unica ombra in grado di oscurarne il sole. Come che sia, que- st’ultimo se ne andò, in esilio, nei giornali della catena di Atti- lio Monti, con il quale condivideva l’essere romagnolo e la pas- sione per i cavalli.


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