L’ultima corrida

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Nîmes, photo M. Meschiari

Il 24 maggio 2015 ho visto la mia ultima corrida con Christian Petr. Non pensavo che sarebbe stata l’ultima con lui, non sapevo che sarebbe morto poco più di un anno dopo. Ci eravamo dati appuntamento per l’ecerrona di Enrique Ponce a Istres, quella del 19 giugno 2016. Ma proprio in quei giorni Christian stava morendo in un ospedale a Parigi, non voleva vedere nessuno, e io sono andato a Madrid, a Céret, e poi ancora a Madrid ma proprio mai più in Francia. Era Christian che mi aveva portato per la prima volta nell’arena il 26 marzo 2005 ad Arles. Dieci anni dopo, Ponce contro Bobito è stata per così dire la mia ultima corrida. Non so quante altre decine ne ho viste dopo la morte del mio amico. Me ne ricordo solo alcune. In ogni caso non le conto mai, non prendo appunti, non scrivo diari. Perché dopo Christian non ho mai più ritrovato la gioia che mi prendeva come se fossi un ragazzino quando risalivamo Victor Hugo e di lontano le ossa spezzate dell’arena romana spuntavano tra i platani colossali. Pochi giorni dopo quel 24 maggio ho scritto il pezzo qui sotto. Non lo sapevo, ma era già l’inizio di un addio.

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Ha a che fare con maggio, con le rondini che rigano le pietre dell’arena. Rue Victor Hugo, i platani, i denti di calcare là in fondo, le arcate, mentre la festa asciuga la notte e versa pastis sull’insonnia. Non riesco a farne a meno, nonostante Simon Casas e le ciarlatanerie compiacenti, compiaciute. È lì che ho visto Tomás con sei vitelli a dimenticare il suo corpo, o Morante sul bordo di una sedia rubata al Café de la Bourse. È lì che ho visto un ultimissimo Rincón, e Castaño fare qualcosa di grande con picca e banderillas altrui. Mezzitori e divi di Hollywood, cornuti collaborazionisti e ballerini in lutto per un padre suicida… Ma il problema, il mio vero problema, è che ho visto Ponce graziare Anheloso, quel giorno, quando un “matastar” e un toro da salotto mi hanno fatto sentire per la prima volta che cos’è il duende, che neanche sapevo come si chiamava. Per questo ieri, ancora e ancora una volta, sono tornato sul luogo del delitto, ai 25 anni di alternativa di Ponce. E sarebbe stato molto più facile parlarvi dei Victorino del pomeriggio, e di come Ureña sa cargar la suerte. Ma avrei dovuto entrare in un linguaggio tecnico ed esatto che, almeno nella mia bocca, sarebbe un po’ furbino e ammiccante, e che comunque non è mio. Scelgo la via in salita, invece, perché mi sono reso conto di una cosa importante, e che cioè la purezza, almeno nel mio modo di vivere la corsa, è qualcosa che mi allontana dalle lacrime. E mi spiego. Quando vogliamo raccontare a qualcuno il perché della corrida finiamo sempre lì, sulla morte pubblica di un animale e sul dare la morte a un animale proprio rischiando di morire. Ma dobbiamo ammettere che la morte la dimentichiamo quasi sempre, anche quando la guardiamo a ogni fine di toro, perché ci piace “pulita”, fulminante ed esatta, e non sporca e cattiva come in fondo è la morte, sempre e comunque. Ieri, vedendo l’hidalgo de Mendoza sbagliare cinque volte la morte del suo secondo toro, ascoltando le grida indignate del pubblico taurofilo, vedendo il macello avvilente, ho capito che invece l’errore mi serve molto, perché non mi fa addormentare con un sorriso sul cadavere incipriato. E l’altra morte, quella del torero, quella che oggi è un’opzione vaga, scongiurata da blocchi operatori così efficaci che avrebbero tolto a Manolete il suo mito, questa morte è quasi solo una parola. Il fatto importante, invece, è che il torero vive ma ci lascia comunque la pelle, in senso proprio, perché sono le ferite e le cicatrici quelle che contano davvero, quelle che escono dal cliché dei discorsi alla Wolff. Quando un corno intruso rompe l’integrità del corpo, quando ci sentiamo offesi dal sangue umano, allora la stronzata della sacralità della morte si rivela per quello che è, un altro velo che stendiamo per non guardare in faccia l’inguardabile, l’osceno. Pensate invece: botte, abrasioni, buchi, lacerazioni, ogni torero è un reduce e una marionetta disarticolata lanciata in aria. È la morte impura dell’animale, allora, il corpo umiliato dell’uomo che dà alla morte pura e alla statua di sé il senso, cioè la direzione, quella tensione utopica che ci spinge sempre verso la corrida perfetta. La tauromachia però è contraddizione, è dare la morte nascondendola nella tendenza, direi proprio nel gusto, che ci fa credere che bisogna darla in modo pulito e rapido, come se questo fosse il punto. Il punto invece è che la forza della corsa è nello scavare delle zone di indeterminazione, quelle in cui l’equilibrio tra serietà e buffoneria, tra eleganza e frana grottesca va negoziato minuto per minuto. L’attitudine talebana che fa della purezza un fine e un ricatto (il toro che le ha tutte, il torero quasi invisibile che lo mette in valore, la bestia intoreabile ma la gamba comunque in avanti) mi da “un” senso della corsa, ma mi priva del piacere didattico dell’errore, della medietà (non della mediocrità), dell’un poco e del quasi. Soprattutto mi priva della capacità, del diritto, anzi, di contraddirmi. Manzanares figlio è un pupazzo odioso ma a volte fa dei recibir accecanti, Morante è un panzone psicopatico ma se gli gira davvero è un’unica colata di bronzo con l’animale. La soppressione della contraddizione, ieri, mi avrebbe fatto perdere qualcosa di importante. Il Domecq collaborativo e franchista, le poncinas, il feticismo nimense, le orecchie che cadono a neve, beh, vorrei quasi dire che non me ne frega un cazzo. La corsa ha la capacità di far parlare sempre, ma pensare, diventare una cosa che esce dall’arena, dai caffè, dalle tertulias, la corsa che esce dalla corsa è un’altra cosa, ed è meno a buon mercato. Lo avevo capito nel senso di straniamento e quasi di imbarazzo che mi ha dato Joselito quando a Istres ha toreato un toro praticamente senza corna su l’Hymne à l’amour di Edith Piaff. Ieri Ponce ha lidiato il primo toro (un vigliacco che ci ha messo dieci minuti dico dieci a uscire dall’ombra del toril al ruedo…) sulla musica di Mission di Ennio Morricone. Bello, molto. E nella messa a morte del quarto, l’immancabile Domecq, ecco un tizio in première B che si alza e si mette a cantare l’ultima parte di Nessun dorma. L’arena mormora, che cazzo fa questo, come si permette, ma Ponce, che sa l’opera, capisce di poter fare qualcosa, e anziché fermarsi parcheggia il toro, si carica, e in un accordo non cercato, al terzo “vincerò”, un “vincerò” forse un po’ troppo protratto, la stoccata cremosa cala nel corpo nero esattamente quando doveva calare. Proprio un’unica nota di sangue. Ora, se c’è una cosa che odio è un’arena ignorante e compiacente. Manzanares ad esempio è invariabilmente capace di riempire i gradini di un particolarissimo pubblico da spiaggia, cafone ed emotivo. Ma ieri, al terzo “vincerò”, quando la spada è entrata, ero uno di loro, turbato, commosso. Emozionato, ecco cosa. L’emozione, che avevo perduto nel labirinto tecnico e intransigente della severità di giudizio, era lì per ricordarmi e farmi pensare che dal letame nascono i fiori. Che la corrida, senza la sua controfigura peggiore, non è niente. O non è per me. Ci vediamo a Madrid.

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