La Tauromaquia di Goya

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Francisco Antonio Ebassún Martínez, detto Martincho, è fermo sulla sedia, sul punto di saltare in piedi, nella mano sinistra tiene un cappello e nella destra l’estoque puntato contro un toro le cui corna quasi sfiorano la falda del sombrero. La plaza è quella di Saragozza. Ma quasi non vediamo, oltre ai due protagonisti della scena, l’uomo e l’animale, altro che un gruppuscolo di spettatori che si affacciano dalla barrera, tesi ad attendere l’esito dell’attimo fatale, della temeridad del diestro aragonese.

Questo è infatti il titolo (Temeridad de Martincho en la plaza de Zaragoza) della diciottesima di quaranta incisioni che formano la celebre serie grafica di Francisco Goya dedicata alla tauromachia.

Sebbene non tutti gli studiosi siano concordi sulle date, la maggior parte propende per l’ipotesi secondo cui Goya l’avrebbe ideata fra la primavera del 1814 e l’autunno del 1816, quando sul Diario de Madrid ne venne annunciata la pubblicazione. Inizialmente le incisioni sono trentatré, poi uno stampatore francese, nella seconda metà dell’Ottocento (l’artista è già morto da quasi trent’anni), scopre che sette lastre sono incise anche sul retro, così il numero sale a quaranta. Anche se probabilmente non sono state create nell’ordine in cui furono successivamente pubblicate, le incisioni sono suddivise in tre parti: la prima dedicata alla storia della tauromachia, a partire da un’epoca antica non definita, passando per il dominio arabo, il medioevo del Cid e il Rinascimento, quando il toro veniva affrontato a piedi o a cavallo (dai nobili), senza che ancora vi fossero delle vere e proprie regole codificate. La seconda parte è invece dedicata alle gesta di alcuni matadores delle due scuole che nel Settecento posero le basi della corrida moderna, ovvero quella aragonese (di Martincho, Juanito Apiñani) e quella andalusa (Pedro Romero e Pepe Hillo, che Goya frequentava abitualmente: di quest’ultimo raffigura nell’incisione 32 la tragica morte nell’arena di Madrid, cui l’artista probabilmente assistette). Infine nella terza parte sono rappresentati diversi lances della lidia con esiti differentemente drammatici per uomini e tori.

Perché dunque Goya, al termine della cosiddetta guerra d’indipendenza spagnola (durata cinque anni, dall’occupazione napoleonica del 1808 alla restaurazione borbonica, quando nel marzo 1814 sale al trono Ferdinando VII), mentre sta ancora lavorando a un’altra celebre (ma pubblicata post mortem) serie di incisioni, i  Desastres de la guerra, dove con sguardo impietoso e disilluso illustra come un reporter moderno le crudeltà efferate (da ambo le parti in conflitto) di cui l’uomo è capace quando libera i suoi più atavici istinti ferini, decide di affrontare un tema così diverso, se vogliamo popolare, come quello della corrida?

Taluni propendono per l’ipotesi che il grande aragonese cercasse una sorta di distrazione creativa dai drammi vissuti e descritti nei Desastres

Altri che le lastre della Tauromaquia rappresentino un “rifugio” di fronte alle politiche repressive del nuovo regime ferdinandino, di cui Goya stesso aveva subito le conseguenze, a tal punto da essere chiamato a difendersi da accuse di “collaborazionismo” coi bonapartisti durante gli anni del governo di Giuseppe, fratello di Napoleone.

Infine, secondo altri studiosi, il tema prescelto, proprio in quanto (allora) “impolitico”, in un’epoca che vedeva il ripristino dell’Inquisizione dopo la parentesi francese, poteva garantire a Goya una qualche entrata, mentre vedeva ridursi drasticamente le committenze ufficiali.

Peraltro, con Ferdinando, gli spettacoli taurini vivevano una grande rinascita, dopo che con i suoi predecessori, Carlo III e Carlo IV, si era giunti fino all’abolizione: il primo aveva concesso esclusivamente una deroga ove i proventi delle corride fossero stati devoluti in beneficenza; il secondo li aveva proibiti del tutto nel 1805. Presumibilmente entrambi i sovrani erano stati influenzati dalle idee degli ilustrados, i pensatori illuministi, come Jovellanos e Moratín, che consideravano questo rito tanto popolare quanto violento, barbaro e incivile.

In un libello anonimo contro la corrida, dall’evocativo titolo di Pan y toros, in sostanza la si paragonava ai crudeli spettacoli gladiatori voluti dagli antichi imperatori romani per tener buono il popolo con la formula del panem et circenses

Anche se, come era prevedibile, tale censura non sortì altro risultato che quello di rendere i suddetti re e gli intellettuali afrancesados che l’avevano suggerita, assai impopolari.

Curiosamente, sarebbe stato, prima del ritorno dei Borbone, proprio un francese, Giuseppe Bonaparte, messo sul trono di Spagna dal fratello, a riaprire le arene e finanziare con fondi pubblici il restauro delle plazas, fino ad abolire il pagamento del biglietto d’ingresso. 

Di certo Goya stava vivendo un momento di difficoltà da un punto di vista economico e sperava presumibilmente di trarre qualche guadagno dalla vendita delle incisioni dedicate a un tema che non aveva mai smesso di appassionare la maggior parte degli spagnoli.

Purtroppo per lui, però, non fu così: la Tauromaquia si rivelò un inatteso insuccesso.

E da qui nascono una serie di interessanti considerazioni, di carattere critico e, ai nostri giorni, direi anche politico.

Perché da qualche tempo una parte degli storici dell’arte spagnoli, curatori di importanti mostre di disegni e incisioni che si sono tenute (o si tengono proprio in questi mesi) alla Real Academia de Bellas Artes de San Fernando (che conserva le lastre originali delle serie grafiche goyesche) e al Prado, si sono spinti a interpretare la Tauromaquia come un manifesto di neanche troppo celato antitaurinismo con cui don Francisco avrebbe voluto denunciare, al pari degli ilustrados del suo tempo, l’assurdità e la volgarità di un rito che nei suoi connazionali meno influenzati dalle idee provenienti dall’altro versante dei Pirenei accendeva viceversa entusiasmi non degni di un popolo illuminato dalla luce della ragione e governato dal concetto dell’utile come unica fonte del bene collettivo.

A sostegno di questa tesi, critici ed accademici “revisionisti” adducono motivazioni che paiono francamente deboli, relative anzitutto alle scelte formali operate da Goya, che peraltro sarebbero alla base dell’insuccesso commerciale della serie.

Scorrendo le quaranta incisioni si vede chiaramente come l’artista abbia consapevolmente e deliberatamente optato per un’impostazione descrittiva che nulla concede ai manierismi e agli ammiccamenti folcloristici tipici delle stampe taurine della sua epoca (come quelle di Antonio Carnicero che tanto successo avevano raccolto alla fine del Settecento, che sicuramente Goya aveva utilizzato anche come fonte, pur ribaltandone la concezione compositiva).

La scelta stessa di non ricolorare le immagini, come era uso del tempo per questo tipo di stampe, fa capire come non volesse rinunciare, solo per ingraziarsi il pubblico o assecondarne il gusto corrente, alla tensione drammatica che solo il bianco e nero poteva consentire.

Ed è proprio questa una delle argomentazioni che coloro che oggi vorrebbero far passare Goya per un pioniere antitaurino portano avanti per alimentare una questione critica che, a mio modo di vedere, ha ben poco senso.

Dire che la scelta di impostare le immagini in modo crudo, ridotto all’essenza, con contrasti luministici che ne accentuano la drammaticità, o che in sostanza l’inquietudine che pervade la descrizione goyesca della corrida, dalle incisioni che ne illustrano la storia a quelle che ne raccontano le fasi della versione moderna, con il loro catalogo di temeridades e locuras da parte dei matadores, nonché di episodi di inattesi e spaventosi incidenti (si veda il caso della numero 21, in cui è descritta la morte per incornata del sindaco di Torrejon sugli spalti della plaza di Madrid), siano prove dell’intenzione da parte di Goya di svalutare e criticare il rito taurino agli occhi di chi le avesse contemplate, ebbene appare onestamente una considerazione fragile.

Goya è un impietoso testimone della realtà che lo circonda, un fotografo che non usa filtri per abbellirla, neanche quando si tratta di ritrarre i suoi committenti più prestigiosi, come i sovrani che lo hanno nominato primo pittore di corte.

Anzi, per quanto gli è possibile, è sempre incline a cogliere il lato tragico dell’esistenza, le contraddizioni insite negli esseri umani: Goya descrive, non giudica.

Colpisce chi ne osserva le opere proprio perché ognuno può riconoscere in se stesso e nella sua stessa vita quelle debolezze e quelle ipocrisie sociali che Goya ci sbatte in faccia senza infingimenti.

Certo, poi, quando vuole, come nei Capricci ad esempio, i titoli che sceglie a mo’ di didascalia delle immagini possono, nella loro laconica e tagliente ironia, lasciarci intuire il sentimento apertamente critico nei confronti delle contraddizioni del mondo che Goya non esita a esplicitare. Ma lo fa sempre con quell’ironia che lascia supporre una forma di empatia umana che è del filosofo e non certo dello sprezzante supercilioso.

Così, nelle tavole della Tauromaquia, a parte il fatto che i titoli scelti non lasciano supporre alcuna intenzione critica nei confronti dell’arte taurina, in quanto puramente descrittivi della scena rappresentata e nulla più (e quando recano termini come temeridad e locura è solo per sottolineare l’audacia del protagonista e semmai ironizzare sull’esibita spavalderia di certe gesta dei toreri, ma non per stigmatizzarne il gusto per il rischio, ben lontano essendo Goya dalla retorica machista ed esibizionista che tanto deve alle alcoliche fiestas hemingwaiane), la gamma di soluzioni compositive, pur nella costante impostazione incentrata sulla sintesi, ci consegna un insieme di straordinaria forza espressiva, come solo un artista all’apice della sua maturità poteva sviluppare, un impeto e una gagliardia che ben si prestano al tema rappresentato.

La morte, il sentimento tragico, il contrasto fra la potenza animale e la fragilità umana, fra la luce e l’ombra che si mescolano come il sangue e la polvere, fanno parte della liturgia taurina e Goya si concentra, come farebbe un obiettivo che mette a fuoco, sull’istante di massima tensione, senza distrazioni, senza inutili grazie convenzionali.

E far passare la drammatica purezza formale di un artista per strumento di polemica presa di posizione nei confronti del tema rappresentato mi pare un insulto nei suoi confronti.

Sì, Goya frequentava alcuni celebri intellettuali ilustrados (era amico del figlio di Moratín, colui che scrisse nel 1776 la Carta histórica sobre la origen y progresos de las fiestas de los toros en España, che funge da fonte per le prime incisioni della Tauromaquia riguardanti la storia della corrida), ma è altrettanto vero che si accompagnava anche a celebri toreri della sua epoca, come Pedro Romero, così come il fatto che si vantava di aver calcato da ragazzo l’arena come novillero, e infine che in una delle lettere all’amico di una vita Martín Zapater (ora perduta), come racconta Charles Yriarte, fra i suoi primi biografi, si firma Francisco, el de los toros.

Tanto da autoritrarsi in un celebre selfie su tela, datato fra il 1790 e il 1795, nel suo studio con una giacca ricamata da torero.

Perché mai, viene dunque da chiedersi, avrebbe poi dovuto celare in una serie di ben quaranta incisioni dedicate al tema un criptico messaggio antitaurino, per tornare ancora sull’argomento un’ennesima volta in uno dei suoi ultimi dipinti, eseguito a Parigi nel 1824 (Suerte de varas), qualche anno prima di morire a Bordeaux, dove peraltro aveva composto altre quattro litografie note come Los toros de Burdeos

La verità è che, a prescindere da come la si pensi sulla tauromachia, come arte, come forma di espressione di una tradizione antica quanto lo sono le civiltà del Mediterraneo, da aficionados o da acerrimi critici che ne sollecitano l’abolizione definitiva, non si può cercare di piegare ai propri interessi un’esperienza artistica come quella di Goya.

Nelle sue incisioni ritroviamo innanzitutto l’immensità della tragedia, che riguarda ogni singolo uomo sulla terra, nel senso greco del termine, la tragedia come canto per un sacrificio, il cui senso attraversa tutto il cammino della storia umana.

Si fa derivare il termine dall’unione delle parole in greco tragos (capro) e aido (canto), e non è forse un caso che, nella solitudine allucinata della sua casa appena fuori Madrid, nota come la Quinta del Sordo (per l’infermità che aveva colpito l’artista poco più che quarantenne), Goya avesse riempito le grandi pareti di apocalittiche visioni di un’umanità derelitta e folle, su sfondi neri come la notte che lo soffocava nei suoi incubi (las pinturas negras), e che in una di esse una moltitudine di streghe degne di un inferno fiammingo sia radunata in attesa di ascoltare il verbo del demonio, che appare come un’ombra sotto le spoglie di un caprone. Il titolo di questa angosciante visione della parte più nera di tutti noi è El Aquelarre

Viene tradotto come Il Sabba, ma aquelarre viene dal basco aker larre, appunto il campo del caprone, che nel dipinto di Goya appare informe, un fondale terrigno senza riferimenti o confini visibili, così come desolato è il paesaggio che circonda i due uomini che cacciano un toro nella seconda delle incisioni della Tauromaquia, una terra silenziosa e inospitale da cui pare sbucato all’improvviso questo animale oscuro, quasi l’ombra di una forza ctonia. 

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