Bar Sur. Un libro italiano

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“Bar Sur” è il titolo di un romanzo di Lorenzo Brenci, nato nel 1967, scrittore senese, contradaiolo della Selva, e innamorato della Spagna, dei suoi tori e dei suoi toreri.

Lorenzo, detto Ado (a Siena si danno i soprannomi a tutti, fantini del palio compresi, ma anche gli spagnoli non scherzano, se si tratta di toreri, appunto), ambienta il suo scritto nella Maremma toscana, ma la vicenda, pur non strettamente taurina, è densa di citazioni, riferimenti e racconti, ed è una vera e propria dichiarazione d’amore alla Tauromachia.

Ecco due brani tratti dal libro

Nei suoi occhi ci passava la Spagna

            Nella Gran Via fatta di carta di zucchero la ragazza camminava piano, diritta, senza guardarsi intorno, aveva un bel volto, ma non era questo, era come l’idea di qualcosa dentro ai suoi occhi. Passeggiammo affiancati dalla Telefonica fino all’altezza del Callao, mi voltai a guardarla e lei, senza esitare, ricambiò il mio sguardo.

            Allora, finalmente, capii cos’era, nei suoi occhi ci passava la Spagna.

            La Spagna gialla dell’Aragona, arida come un deserto, riarsa, senza un solo paese per chilometri e chilometri. I canyons dalle parti di Ariza, così belli che il nome Arizona venne in mente ai conquistadores di queste parti. La Spagna che quando pronunci questo parola è un suono che racchiude dentro di sé un’idea. Il jamon davanti a un bicchiere di birra ghiacciata. La meseta gialla e il mare azzurro che si vedono dalla fortezza di Alicante. Gli sterminati uliveti dell’Andalusia, e non c’è altro, solo quelli, conficcati nella terra arancione, a perdita d’occhio. L’Antigua Venta de Alfarnate nelle montagne brulle vicino a Granada, un tempo rifugio di banditi, dove cucinano l’huevo a lo bestia. La Rambla di Barcellona, come un trampolino che non finisce nel mare, ma in un tavolino sul fondo del Bar Sur. I muli da parata, di pomeriggio, sul Ponte di Triana, che attraversano il Guadalquivir nei giorni della Feria de April, a Siviglia. L’Alhambra, ideale leggero e senza tempo, del tutto irraggiungibile quando la guardi dal Paseo de los Tristes. I tori per le strade di Pamplona, tutti quegli ubriachi, i baschi che ci corrono insieme, colpendoli in mezzo alle corna con il Diario di Navarra arrotolato su se stesso. Il completo bianco del Real. Il ragazzo con il vestito che luccica offuscato dalla povere e dal sangue, ma non il suo sorriso, quello no, resta lì e nessuno saprà mai se è davvero così o, come penso io, solo una smorfia. Le strade deserte delle città di Spagna, in estate, durante la siesta che si prolunga fino al tramonto. Il colore del cielo di Sanlucar de Barrameda alle cinque del mattino, i vecchi, i bambini e tutti gli altri che continuano a ballare a quell’ora puttana nel giorno della Feria della Manzanilla.

            Insomma la Spagna, che è così diversa da tutto il resto, o forse no, pare solo a me.

*** *** ***

Come spesso accade, Lorenzo rimase come folgorato durante un viaggio di tanti anni fa. In quei giorni, fu direttamente spettatore della terribile, crudele, e per questo taurinissima vicenda che vede protagonista del racconto un torero dimenticato dai più, che si gioca il tutto per tutto con l’unico toro che può affrontare, una volta nella vita, nella sua Siviglia, in piena Feria di Aprile. La Corrida della Opportunità, sei toreri ai margini del Piccolo Mondo, e sei terrificanti animali del Conte di Veragua, i famosi tori bianchi dell’allevamento di Prieto de la Cal. E Lorenzo lo fa alla grande, omaggiando Hemigway in una citazione sfacciata di “Morte nel Pomeriggio”. Un episodio tutto da godere. 

Sangue alla Puerta de los Chiqueros

            “Questa è una storia spagnola, madame. Beva il suo brandy”.

            “Non mi vorrà impressionare con quelle atroci storie di toreri”.

            “È esattamente quello che desidero fare”.

            “Ma come può piacerle la corrida, figliolo?”.

            “Quien sabe, madame?”.

            “Dovrebbe saperlo, invece. E poi queste storie di Latini… non le si addicono, lo sa?”.

            “Poco fa mi ha confessato che i matador le piacevano, un tempo”.

            “Ormai ho dimenticato queste cose”.

            “Sono cose che non si dimenticano, madame”.

            “Non diventi impertinente adesso. Come si chiama il torero di cui vuole parlarmi?”.

            “Il suo nome è Jesus Francisco Cadeña, in arte Franco Cardeño”.

            A questo punto la signora bevve il suo brandy, a sorsi lenti, assaporando qualche ricordo.

            “Jesus nacque a Triana, nel cuore popolare di Siviglia. Per i toreri sivigliani solo le corride della Feria de Abril valgono davvero la pena… la loro vita passa accanto a un toro di cinquecento chili sotto il sole di rame e fra le arcate della Real Maestranza. Un’intera vita per trascorrere quel momento fra gli olè della folla. Non è uno scherzo, i toreri sono così, altrimenti avrebbero fatto un altro mestiere”.

            “La sua passione per questa gente è preoccupante, lo sa?”.

            “Lo so bene, madame. Ma permetta che continui il mio racconto. Dunque, stavo dicendo, Franco Cardeño apparteneva alla moltitudine dei matador dimenticati, relegati nelle ferias di città minori, non aveva mai avuto la fortuna e forse neppure il merito di entrare nell’arena di Siviglia vestito di luci. Il completo dei matador si chiama così, traje de luces, brilla in maniera impressionante, come una beffa ulteriore, non si capisce per chi”.

            “Figlio mio, questo lo ricordo bene. Come mi piaceva il vestito dei toreri, quello rosa era il mio preferito”.

            “L’unica certezza, insomma, era stata la mancanza di occasioni che aveva costellato la sua vita. Ma non aveva smesso di fare il matador, come capita alla maggior parte di loro che finisce per bearsi di ricordi, in qualche taverna per lo più. Vivono di sogni, soprattutto, io credo”.

            “Ma questo in fondo è comune a gran parte degli uomini”.

            “Solo che i sogni dei toreri mancati sono più gloriosi e il loro fallimento è più doloroso”.

            “Non ci avevo mai pensato”.

            “Ma non è neppure questo il nostro caso perché dopo il palese fallimento in Spagna emigrò in Sud America pur di continuare la sua arte. Messico, Venezuela, Colombia e Perù. Ma riuscì a conquistarsi una discreta fama soltanto in Ecuador dove le corride si riducono a spettacoli feroci in arene di fortuna con ingrati contadini al posto degli spettatori. In quel periodo, per riuscire a vivere, alternava il mestiere di torero a quello di venditore ambulante, sempre in Sud America”.

            “Oh, mi spiace molto per lui”.

            “Ma nella testa dura di Franco restava conficcato un sogno. Quello di combattere a Siviglia durante la Feria de Abril. Un sogno che non era riuscito a realizzare, come per una cattiva magia, e restava ancora saldo e immutabile come quando era bambino. E pur di concretizzarlo fece perfino uno sciopero della fame”.

            “Povero ragazzo”.

            “A quel punto non era nemmeno più un ragazzo, a dire la verità. Infine la fortuna, che gli aveva sempre voltato le spalle, si arrese alle sue offerte disperate. Nei giorni che precedono la Feria, fra altre corride di grande livello, viene programmata la cosiddetta Corrida de la Opurtunitad, dove sei toreri dimenticati, senza ricevere alcun compenso, si giocano l’ultima possibilità della carriera. Se andrà bene otterranno qualche ingaggio per l’estate che viene. Si tratta di un meccanismo crudele, una gran corrida a Siviglia come l’ultimo treno. È la vita del resto. L’otto di aprile del 1997, dopo aver noleggiato il vestito e affittato la cuadrilla, Franco Cardeño, con le braccia conserte nella mantilla, esce dalla Porta del Principe per andare incontro al suo sogno di sempre. Ha un solo toro a disposizione, solo quello, tutta una vita.

            “Suerte hijo!”.

            “Vedo che ricorda perfino l’augurio che le donne rivolgono ai toreri quando entrano nell’arena”.

            “Si spicci, figliolo, invece di pensare ai miei ricordi”.

            “Decide di cominciare con un passo estremo, in ginocchio di fronte al callejon, che a Siviglia si chiama Puerta de los Chiqueros, quella da cui il toro esce come una furia ancora integro e selvaggio. Sopra il capote rosa e giallo sbuca solo la faccia terrea di Franco. Per il toro, una bestia semi cieca, è solo il pennacchio di un drappo immobile”.

Il ragazzo a questo punto comincia a sgranocchiare un po’ di gamberetti che il solerte cameriere ha appena servito su un piccolo piatto per accompagnare i drink.

            “Ma non può cominciare a mangiare proprio ora, figliolo”.

            “Un momento, madame. Adesso viene la parte più impressionante”.

            “La smetta con quei gamberetti e continui a raccontare!”.

            “In realtà è rimasto soltanto l’epilogo. Ampiamente prevedibile a questo punto. Il toro, lanciato a folle velocità contro quel panno indistinto, ha colpito Franco in pieno volto, il suo corno è penetrato nella bocca e gli ha staccato un intero pezzo di faccia, dal labbro fino all’occhio. Questo pezzo di faccia penzolava, ormai del tutto divelto, come uno straccio sanguinolento, nella polvere perfettamente gialla dell’arena di Siviglia”.

            “Oh no, povero figlio!”.

            “Invece sì. In terra, senza aver mostrato un solo istante della sua arte, fra le grida del pubblico terrorizzato, giaceva Jesus Francisco Cadeña, al secolo Franco Cardeño, matador de toros![1]“.

 Il toro fu ucciso dal migliore matador di quella serata sciagurata, El Niño del Tentadero, che così vendicò Cardeño. Perfino la Regina Madre andò a trovare il nostro sfortunato protagonista in ospedale, a Siviglia, per portarle i suoi auguri. Nella prima pagina dei giornali campeggiava la foto di lei che stringeva la mano a un uomo con il volto interamente fasciato e molto più grande di un cocomero. Franco Cardeño, alla fine di quell’estate, tornò ancora a vestirsi di luci in una plaza del Sud della Spagna, non ricordo più con quale risultato.

BAR SUR, di LORENZO BRENCI

Co-edizione: Betti Editrice e Primamedia Editore

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