La festa infinita. Tancredismo

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Foto M. Nucci

La feria entra nell’ultimo weekend, quello turistico. La festa infinita volge al termine. Ma come può finire ciò che è infinito? Ai tempi della rivoluzione globale, quella in cui si edulcorano odori e sapori, si cancellano i grandi gesti, si normalizza il linguaggio e si evita ogni segno di ribellione e si annulla ogni tentativo di eversione, in questi tempi la parola d’ordine è ripetersi. Ripetere tutto identico a sé ovunque. Ripetere e ripetere come se nella ripetizione fosse possibile trovare un antidoto alla morte. Ci vorrebbe don Tancredo per schiudere gli occhi a chi crede nella ripetizione per mostrare la vera forza di Spagna. IL tancredismo come categoria dello spirito. Così la spiegò al mondo Pepe Bergamín. Immobilità nel timore. Una forza tutta spagnola. Quella forza capace di mostrarsi all’apice della festa, quando si scopre che solo ciò che è effimero dura per sempre.

 

SABATO DI FERIA: TANCREDISMO CATEGORIA DELLO SPIRITO

E finalmente appare don Tancredo.

Mi pare un sogno, il frutto della mia immaginazione. Forse si trova qui, tra la folla che sembra non vederlo, soltanto perché a crearlo sono stato io. Una specie di ologramma, al limite, e invece è realtà. Proprio qui, ora, sabato pomeriggio, penultimo giorno dell’infinita festa sivigliana. Calle Asunción, a metà fra plaza Cuba e l’immenso portone della Feria su calle Antonio Bienvenida. Non c’è dubbio, dev’essere proprio lui, don Tancredo, tutto bianco, vestito di bianco, il volto bianco, anche se nessuno sembra vederlo, e gli passano davanti come fosse un sogno. Resto lì, minuti interi a guardarlo, fermo immobile come lui, finché non faccio pace con me stesso . Si tratta di un mimo, il classico mimo che Patrick Bateman in American Psycho, sogna di uccidere senza pietà. Solo che nessuno ci fa più caso, ai mimi. Troppo comuni, ormai. Lui poi – il ragazzo tutto bianco che la folla diretta alla feria ignora – molto probabilmente non sa nulla di don Tancredo López, un povero torero fallito di Valencia che a fine Ottocento cominciò a proporre con gran successo nelle arene di Spagna un numero di toreo comico destinato a renderlo immortale. Vestito di bianco, dipinto di bianco, infarinato dalla testa ai piedi, Tancredo passeggiava nell’arena vuota, portandosi appresso una pedana bianca. La poggiava al centro della pista e saliva su. Poi restava immobile, completamente immobile in una posa ridicola e statuaria, mentre la porta del toril si apriva. Il toro entrava nell’arena sbuffando, cercando un nemico, aggirandosi per studiare i terreni. La statua bianca neppure la guardava. Un toro vede vita in ciò che si muove, in ciò che emette suoni, non nelle statue. Tancredo rimaneva lì, fermo immobile, confidando nelle certezze che la sua conoscenza dei tori gli offriva, terrorizzato dalla possibilità che il toro cominciasse a annusarlo e a sospettare l’inganno. E intanto il pubblico rideva.

È diventato una categoria del toreo, il tancredismo, l’atteggiamento austero di chi combatte l’animale quasi fosse una statua, muovendo solo la muleta, mantenendo un distacco ieratico dal pericolo. È diventato una categoria dello spirito, il tancredismo, da quando José Bergamín, poeta, commediografo, scrittore esponente della celebre “Generazione del 27”, grandissimo esperto di tori, scrisse un saggio in cui vedeva in quell’atteggiamento una tipica caratteristica dell’uomo spagnolo, dell’hispanidad in quanto tale. Terrorizzata dentro, ma immobile fuori, quasi che in quell’immobilità essa cercasse un antidoto alla propria finitezza e alla propria mortalità, una speranza di successo sulla morte, speranza manifesta nel quasi assoluto disinteresse verso tutto ciò che scorre nella contingenza dei tempi, nella finitezza dei continenti, nella banale vita quotidiana del mondo, tutto il mondo fuori di Spagna. Come un muro a calce bianca fra le migliaia sparsi sugli altopiani iberici. Una finestra di legno chiusa. Ma qualcuno dentro vive e vi guarda.

Chi meglio di don Tancredo potrebbe salvarci oggi? Così mi viene da dire, nell’ilarità generale, mentre quello che in realtà è un mimo resta lì immobile tra le folle che non lo considerano e io solo lo considero, ma soltanto perché vorrei vedere in lui un baluardo contro la globalizzazione, un impulso a spingere gli spagnoli a mantenere alta la loro hispanidad, a fregarsene di tutto quel che scorre attorno, a mantenersi immobili, nonostante il terrore che il flusso irrefrenabile del globo possa investirli. Sarebbe un sogno, anche questo. E certo è il mio sogno. La Spagna perduta degli anni Ottanta del Novecento, la Spagna che nulla concedeva, certa della sua sognante superiorità, chiusa negli altipiani di cielo cristallino e aria frizzante e polvere, le sierre gelide, le discese verso il mare ripide, piene di rifugi, bar di legno intriso di tabacco nero e sigari ovunque e corride ovunque e muli e strade bellissime, diritte, eterne, solitarie e vuote. L’ho già detto: la torre di cui un’insana mente ha concesso la costruzione è una barbarie contro Siviglia, la fine dell’orizzonte di campi che si apriva fra Triana e la Cartuja, la fine della legge inappellabile: nulla più alto della Giralda. Ma altre cose stanno fagocitando questa città. E su tutto, la serie, la ripetizione, come se si dovesse inseguire il delirio globale che vede nella ripetizione una vittoria sulla morte. Ma quale vittoria? La morte è invincibile. L’unica speranza di farla secca non sta nella ripetizione ma nella festa, nella follia, nella vita improvvisa che riscoprono i morti. E questa triste, mediocre ripetizione di cui ci stanno riempiendo la testa? Le catene di locali che hanno invaso la città, per esempio. Arredi uguali e replicati in serie. Panini, menu, carte. Due catene su tutte, La Sureña e Patio San Eloy. Interni e esterni sempre uguali a ricreare un’appartenenza andalusa che in una catena non può che morire. Eppoi la ripetizione nella corrida, la ricerca di una corrida moderna e spettacolare, buona per tutti, per tutti i palati, per tutti gli osservatori, anche chi non ne sa nulla, anche chi non vuole più vedere la morte nell’arena.

Poca animalità, poco spazio a ciò che è selvaggio. Rendere tutto appetibile a tutti. Mi sono chiesto come possano non capire, gli autori di queste atrocità globalizzanti, che non è così che si combatterà la crisi (figuriamoci la morte). Non è costruendo grattacieli per qualche amante di modernità, non è distribuendo catene di locali per chi cerca emuli dei fastfood, non è creando una corrida per anime ipersensibili e fintamente animaliste, che si salverà Siviglia, i suoi tori e le sue tradizioni. Non è dando spazio a chi arriva con un low cost come se fosse in qualsiasi altra parte del mondo. Guardavo con tristezza il cartel in programma per quest’anno a Jerez de la Frontera, neppure un’ora da qui, feria spettacolare, corride che un tempo percorrevano una settimana intera e ora sono solo tre, tre misere date, le date che i soldi hanno concesso, ah la crisi! Ma non è la crisi, questa. Questo è il tancredismo che manca oggi alla Spagna. Me lo ripeto come un mantra mentre vedo che per le vie della feria si aggirano orde di non sivigliani, come è d’uso nei weekend feriali. Qualche calesse, qualche cavaliere, qualche abito colorato flamenco qua e là. Ripetizioni infinite di rebujito quasi soppiantate da bevande forti, ubriachezza, via vai incessante, mentre il sole si è allentato. E intanto penso alle corride che volgono al termine e a tutte le serate all’arena percorse da note di noia mortale, l’aburrimiento che per gli spagnoli è peggio di qualsiasi fine e che forse oggi comincia a essere un segno di correttezza, di accettabilità. Finirà davvero tutto questo? Dov’è un don Tancredo che mostri nella sua timorosa immobilità la forza di Spagna?

I fiori d’arancio sono ormai secchi. In un mese di festa si sono aperti, hanno dominato la città, si sono fatti bruciare da giorni di caldo africano e ora cospargono le strade di un giallo quasi marcio. Anche la mia piccola piazza elettiva, Plaza del Cronista, ha perso l’odore penetrante e sensuale. Ovunque sta prendendo il sopravvento un altro albero, l’albero detto del Paradiso, fiori piccoli dalle forme simili al gelsomino, un odore straziante, malinconico e che pare già bagnato dell’umidità notturna, nonostante sia giorno pieno. Ci sono strade che risorgono in questo fiorire bianco, azzurro, violaceo. Mentre percorro la via che il recinto feriale ha dedicato al fratello di Joselito, Rafael El Gallo, detto il “Divino Calvo”, un ragazzo al telefono chiede lumi su una casetta perché il civico sulla calle non corrisponde: “Ma hai detto calle José El Gallo? Io ho visto calle Rafael El Gallo: Ah, dici Joselito? Ma Joselito non è José. Dici che Joselito è Rafael?” Mi pare straziante che un sivigliano non sappia nulla né di Joselito né di suo fratello Rafael. Joselito dovrebbero conoscerlo tutti. Il più grande di sempre, come dio per gli adulti, come D’Artagnan per i bambini. Morto giovane come “un Lucifero adolescente”. E Rafael? Il Divino Calvo non morì giovane. Scappò davanti ai tori che temeva. Fece faville con quelli che non temeva. Inventò movimenti, passaggi, lanci artistici. Divenne celebre per le sue battute. Una volta arrivò a Parigi, vide che non c’erano corride in programma e disse ai francesi che lo seguivano: “Niente tori? Ma siete matti? E cosa fate di domenica?”

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Le puntate precedenti:

1. Vigilia. Un venerdì qualsiasi nel nostro mondo

2. Domingo de Ramos. El sol es el mejor torero

3. Martedì Santo. Il cuore dei Misteri

4. Venerdì Santo. Madrugá

5. Resurrecciòn. I costaleros di Achille

6. Pasqua. La reincarnazione del toro

7. Pasquetta. Il nazareno di Chaves Nogales

8. Verso la Feria. Il dominio sul mondo

9. Preferia. Mistero flamenco

10. Domenica di Preferia. Silenzio

11. Feria. Trionfo degli effimeri

12. Feria. Kairòs, la grazia della leggerezza

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