Il torero di Antikythira

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ATENE. Il Museo Archeologico Nazionale di Atene è uno dei posti più belli del mondo. Ogni volta che sono in città vado a farmi un giro. In genere, percorro i corridoi del palazzo neoclassico ottocentesco, senza fermarmi. Do un occhio qua e là. Il grande kouros, il ragazzino che cavalca, i due lottatori, Poseidone di bronzo, la maschera di Agamennone, il suonatore d’arpa cicladico. I pezzi meravigliosi e celeberrimi. Li guardicchio, li saluto passeggiando, poi mi fermo da qualche parte e approfondisco pezzi minuscoli, crateri, anelli, frammenti. Qualche piccola novità, ogni volta. Ma l’aspetto più bello della mia visita è il saluto ai grandi pezzi che conosco benissimo e sento un po’ amici. Uno di questi per me non è altro che “il torero”. Lo chiamo così da anni. È un giovane bellissimo di bronzo. Uscì dall’acqua in cui si era inabissato dalle parti di Antikythira, una minuscola isoletta in cui sono stato qualche giorno a mangiare carciofi selvatici, un’altra meraviglia assoluta. Il naufragio della nave su cui questa statua viaggiava probabilmente nel primo secolo a.C. rappresenta la grande fortuna del giovane di bronzo che io chiamo torero e che in genere è chiamato semplicemente “l’efebo di Antikythira”. Dell’immensa produzione di statue bronzee non ci è rimasto nulla, infatti, se non per quei pezzi salvati dal mare o dalla terra. Il resto fu fuso e trasformato soprattutto in armi. Atto distruttivo epocale poiché la pesantezza delle copie in marmo che i romani ci hanno trasmesso nulla può di fronte alla sublime leggerezza del bronzo, fuso con la tecnica della “cera persa”, e ancorato a un piedistallo in maniera così semplice e ineffabile che, di fronte ai cippi marmorei o alle pietre che costituiscono l’appoggio delle statue in marmo altrimenti impossibili da sorreggere, ci lascia con un’impressione di levità indescrivibile.

La levità del torero del resto sta tutta nel suo gesto enigmatico accompagnato da occhi che lasciano accorati. La mano destra di questo giovane sembra infatti posarsi su un’idea. Indice e medio sollevati formano uno spazio chiuso dall’anulare e il mignolo da una parte e dal pollice dall’altra, un misterioso spazio su cui gli studiosi si sono affannati per identificare il ragazzo. Sicuramente infatti è andato perso l’oggetto che il giovane stringeva in mano quasi carezzandolo. Alcuni sostengono che fosse una mela. La mela d’oro che Paride consegnò a Afrodite. La mela che Eris, divinità della discordia, aveva dedicato alla più bella fra le dee e che Era, moglie potentissima di Zeus, Atena, dèa dell’intelligenza astuta, e Afrodite, dea della seduzione erotica, si erano contese. Paride rifiutò il potere sul mondo che le offriva Era e rifiutò i saperi che le offriva Atena pur di consegnarsi a Elena, la più bella fra le donne. Afrodite fu ricompensata da Paride con la mela d’oro, Elena fu sedotta a Sparta e portata via a Troia. Quel che ne seguì fu dolore e tormento. La guerra di Troia, scatenata da Menelao e dal fratello Agamennone per riprendere la moglie di Menelao, offeso dal giovane principe troiano che oltre alla seduzione di Elena, aveva tradito l’ospitalità spartana. Sarebbe dunque Paride l’efebo di Antikythira? Dietro il languore dei suoi occhi, dietro la sua bellezza di giovane riccioluto e ben dotato (il membro maschile nell’antichità doveva essere piccolo quando non eretto. Volgare era ritenuto il superdotato che domina l’immaginario moderno), l’efebo nasconde il bellissimo principe troiano, traditore per antonomasia, delicato, dolce di movenze afrodisiache? No. Moltissimi studiosi rifiutano quest’identificazione. Non mi soffermerò sui motivi del dissenso (il principale sarebbe l’assenza del berretto frigio – caratteristica iconografica di Paride). Dirò soltanto che l’alternativa sembra molto più interessante.

Sarebbe Perseo l’uomo in cui il bronzo si fuse per mano di un artista sapientissimo attorno al 340 a.C. Le dita del figlio di Zeus e Danae stringerebbero infatti il volto di Medusa che egli riuscì incredibilmente a uccidere. Medusa è la mortale fra le tre Gorgoni. Capelli serpentini, zanne suine e barba, pietrificava chiunque la guardasse negli occhi. Perseo fu inviato a ucciderla da Polidette che voleva in realtà la morte del giovane e la mano della madre Danae. L’impresa impossibile riuscì grazie ai mezzi di cui il giovane si dotò: innanzitutto i sandali alati per conquistare velocità di fuga, poi la sacca magica per riporvi la testa di Medusa (da non osservare neppure decapitata), infine l’elmo di Ade per rendersi invisibili. Ma furono altri due gli oggetti determinanti alla riuscita dell’impresa: uno scudo lucido come uno specchio dono di Atena, per guardare Medusa solo di riflesso. E un falcetto di diamante dono di Ermes per decapitare la Gorgone.  Compiuta l’impresa, Perseo sollevò la testa in un gesto che lo avrebbe reso immortale nelle mille raffigurazioni, prima di inserirla nella sacca e volare via con i suoi sandali alati. È Perseo allora il mio torero? Anche in questo caso mancano i segni classici che generalmente caratterizzano l’iconografia dell’eroe. Ma la loro assenza sarebbe meno drammatica che nel caso di Paride.

Tuttavia, quello che resta misterioso in questi tentativi di identificazione è il motivo che spinge qualsiasi studioso a cercare un oggetto fra le dita del giovane. L’enigma di quella mano va svelato soltanto scoprendo l’oggetto che essa accarezza. E se non fosse nulla? Quando io vidi nell’efebo un giovane torero, fui spinto proprio dal mistero di quella mano, dal gesto flamenco, l’atteggiamento dolce e orgoglioso di fronte alla morte del toro. Non è forse quella la mano di un ragazzo del Mediterraneo che ha saputo aspettare con dolcezza, stoicismo, amore e infinito rispetto la morte del suo toro? Non vi sembra forse il gesto che sorge spontaneo alla fine di una corrida d’arte con cui il ragazzo ha infine dominato l’animale somministrandogli la morte? L’erede del bos taurus primigenius che fra Creta, Egitto e Spagna dominò incontrastato con la sua intelligenza e il suo potere selvaggio irretito nelle maglie magiche dell’inganno che lo costringe a seguire curve anziché linee rette. E infine la spada che uccide, proprio quando il giovane non può guardare il toro negli occhi. E mentre muore il suo nemico diventato amico, il giovane lo aspetta e solleva la mano.

In fondo c’è Perseo in tutto questo. Perseo che usa strumenti magici, che di magia hanno solo la sapienza umana. Lo specchio soprattutto. Per non guardare Medusa negli occhi. Come il torero che non può guardare il toro negli occhi nel momento della verità. Eppoi lo strumento che dà la morte. E la grazia con cui carezza il suo nemico divenuto amico. C’è molto Perseo nel giovane torero. Ma c’è poca Medusa nel toro. Il toro non pietrifica con i suoi occhi. I suoi occhi sono l’unica vera salvezza per chi gli è davanti e cerca di conoscerlo. Né le zanne, né la barbetta delle prime rappresentazioni di Medusa (divenuta poi donna bellissima) ritroviamo in quell’animale sacro che noi amiamo. Né i capelli serpentini. No. Non c’è il toro in Medusa. Benché Medusa conservi la forza sacra anche morta proprio come il toro. Benché la sua testa debba essere salvata. Benché basti un ricciolo serpentino a spazzar via eserciti. Benché il mostro sia diventato amico e alleato. Come il toro che è dentro di noi dopo che lo abbiamo domato, ammansito e vinto. Ecco perché il giovane efebo di Antikythira, che sia o meno Perseo, per me resta solo e soltanto “torero”. Come qualsiasi giovane che ha vinto contro la propria parte oscura e l’ha resa alleata, facendone la sua forza. E adesso con grazia e languore alza il braccio, carezza il vuoto che si è dissolto e assiste alla trasformazione. La morte delle sue debolezze. La rinascita.

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