Il ritorno di Volapié

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1940

“C’è una copia di Volapié su eBay”. Il messaggio nel gruppo di aficionados compariva all’improvviso come un fulmine. Ma era necessario controllare l’ora prima di aprire internet. Bastava arrivare tardi di pochi minuti e la copia se n’era volata via. Per anni, gli appassionati di tori hanno lasciato il sangue pur di procurarsi un volume del libro di Max David uscito per le Edizioni librarie italiane nel 1954 e ripubblicato da Bietti nel1969. Oggi finalmente la rinata Edizioni Settecolori lo restituisce ai lettori.

È un’edizione da festeggiare. Fascetta hemingwayana. Illustrazione a colori che Miguel Barceló ha regalato all’editore per l’occasione in nome dell’amicizia e dell’afición. Postfazione di Stenio Solinas sulla figura di Max David. Fotografie e didascalie dell’autore su carta patinata a centro libro. Sinossi a inizio di ogni capitolo e introduzione mie. E infine carta, caratteri, copertina e cura tipiche di Settecolori, ossia un inno a chi ama il libro, l’oggetto libro, perché la forma non può allontanarsi eccessivamente dai contenuti. Soprattutto se i contenuti sono quelli delle opere che la collana sta mettendo in campo.

Volapié è un romanzo ibrido ante litteram, unico a prescindere dal tema a cui è dedicato. Racconta una Spagna in parte perduta e in parte eterna. Affronta i temi classici di ogni opera dedicata all’hispanidad e si allontana dal nucleo centrale del racconto per aprire excursus notevoli, come quello circa il popolo gitano (l’intero capitolo VIII di Volapié) che affascinava David al punto da volerne trarre un libro a se stante, libro che purtroppo non vide mai la luce. Ironia, leggerezza, lingua che svolazza sugli spagnolismi ridimensionandone la sacralità e una passione e un vitalismo unici. Max David è un autore da rivalutare e rileggere. Giusto incominciare da qui. Ecco allora un assaggio della mia introduzione.

Volapié: l’arte della fuga dall’anestesia dei nostri tempi

Tutto ebbe inizio il giovedì santo del 1943, il 22 aprile per l’esattezza, all’imbrunire. Il grande portone della chiesa del Gesù di Medinaceli si aprì, la luce delle candele baluginò sulla strada e la folla assiepata tacque. La croce del Cristo dei toreri tremava uscendo dal suo tempio e Max David, allora neppure trentacinquenne, si lasciava rapire. Non si era lasciato contagiare dal virus della passione taurina (che gli spagnoli chiamano afición) negli anni in cui aveva seguito la Guerra Civile. Assieme all’olio grezzo e alla tortilla, la corrida lo aveva nauseato: “la Spagna grondava sangue da ogni parte” e solo l’idea di perdere altri litri di sangue per un rito arcaico gli era parsa folle. Adesso, però, il pregiudizio si era allentato. O forse fu altro. Fu la sera che ottant’anni fa come oggi, a primavera scende su Madrid in una pozza di blu chiaro giù dalla Sierra de Guadarrama quasi fosse altra luce. Fu l’odore di festa che in Spagna sale dalle strade in qualunque occasione si stia celebrando un rito. Fu la musica silenziosa di una voce rauca, una voce flamenca che cominciava a cantare per il Cristo appena sbucato dalla chiesa e che in effetti celebrava il toro. E fu dunque il toro che travestito da Cristo era uscito in strada per essere adorato. Fatto sta che quella sera Max David “cadde aficionado”, una passione che gli prese le viscere, come capita a chiunque la provi, e si diffuse nel suo corpo come una malattia, lo tenne incollato al mondo taurino per due anni e lo riempì a tal punto di vita, la vita che sola trionfa di fronte alla morte, che quando tornò in Italia, nella sua Romagna, nonostante la vitalità godereccia a cui veniva restituito, non poté fare a meno di mettersi a scrivere: un lavoro lungo, complesso, rischioso, per dare a noi italiani l’unico libro taurino del Novecento.

L’incipit di Volapié, capolavoro che tutti gli italiani appassionati di tori conoscono, libro di culto introvabile da anni, capace di spingere a follie per raccattarne una copia usata o, più facilmente, capace di spedire in biblioteca e da un copista pur di avere in mano le pagine e leggerle, vergarle, annotarle, libro che finalmente oggi torna in libreria, ebbene l’incipit di Volapié, con la sua immagine di strada còlta a Madrid in quel giovedì santo del 1943, colpisce chiunque sappia anche poco di Spagna. Colpisce perché accompagna nell’universo taurino da una posizione apparentemente laterale, quella religiosa. E colpisce anche perché molto simile è l’immagine con cui si apre invece l’unico film italiano dedicato ai tori nel Novecento, a sua volta un capolavoro indiscutibile e per molti versi inarrivato: Il momento della verità di Francesco Rosi. Può sembrare un caso. Qualcuno, al contrario, potrebbe immaginare che Rosi sia stato influenzato da David. È possibile, in fondo, anche se a me pare improbabile. A me, in effetti, pare assai più probabile che l’occhio di due italiani (due intellettuali molto diversi fra loro, animati verso il mondo taurino da passioni molto lontane e tuttavia dal fondo comune) abbia potuto cogliere un nesso essenziale. Una chiave di volta che generalmente nelle riflessioni degli spagnoli è assente e che invece per uno straniero forse è a portata di mano, proprio per la lontananza dallo spagnolismo profondo che permea chi in Spagna nasce.

Chiunque abbia partecipato almeno una volta nella vita a quel rito sconcertante che è la Semana Santa di Spagna sa cosa è in ballo quando si racconta l’inizio di quelle che impropriamente noi chiamiamo processioni. Il grande palco (termine tecnico italiano “fercolo”), su cui Vergini e Cristi sono deposti fra fiori e candele per attraversare le vie della città, fatica a uscire quasi fosse un parto. Nessuno sa del dolore a cui sono costretti i costaleros, gli uomini nascosti sotto ai drappi che bordeggiano la struttura lignea, collo protetto da un pezzo di stoffa e aggiogato alle travi che sostengono il fercolo, muscoli allenati e soprattutto abitudine al ritmo, nonché preparazione nell’eseguire i comandi millimetrici che la voce del Capataz impone loro dalla strada. Nessuno sa di quella fatica, ma quando l’immenso palco riesce a sbucare dal suo tempio, è difficile non percepirla, quella fatica, e avere l’impressione che essa, come una lenta agonia, sia analoga all’agonia che accompagna l’uscita di un bimbo dal ventre della madre. È un parto di vita, un’esplosione di festa dolorosa, un’emozione tragica e sfibrante. E non è un caso se l’atmosfera che accompagna il percorso di Vergini e Cristi durante la Semana Santa riesce a unire genti che ammirano l’arte a genti che pregano, genti che si ubriacano di alcol a genti che ballano e cantano, genti amanti di tradizioni a genti in cerca di futuro. Quel che trionfa, infatti, è soltanto la vita, la vita che in ogni festa spagnola fa i conti con la morte.

Ora, chiunque sappia di tori, sa anche che quel vitalismo sfrenato tipico della Semana Santa è lo stesso vitalismo che regna nell’arena e sa che il toro, il dio toro, quando esce dal toril e si scaraventa sulla sabbia di albero della plaza, nel sole che deve dominare anche se piove, è come il Cristo che esce in strada spinto dal passo doloroso e felice dei costaleros. Suona la banda, suona la musica silenziosa della corrida, echeggia il canto gitano di un flamenco, che sia una saeta religiosa o laica, si diffonde nell’aria odore di mandorle, sigari cubani, tabacco nero, risuona il ghiaccio che rintocca nelle coppe di superalcolici e c’è sempre la vita che trionfa. E per trionfare, al centro del rito sta la morte, la morte di Cristo che risorge, la morte che la Vergine piange, la morte del toro, la morte che rischia il torero, la morte che alcuni toreri porta via con sé.

In questo senso, non è cambiato molto da quel 1943 in cui Max David cadde aficionado. Certo, il quartiere della Iglesia del Cristo di Medinaceli non è più il barrio torero per eccellenza. Lo chiamano barrio de las letras, oggi, visti i letterati eccellenti che vi vissero, e ormai pur di recuperare un po’ della vita che fu, è necessario dimenticare i locali scntillanti per studenti anglosassoni che riempiono le vie e infilarsi alla Venencia in calle Echegarray, la stessa via dove visse, in una pensioncina da due soldi, il grande rivoluzionario della corrida Juan Belmonte. Un vinito di Jerez de la Frontera che sia un fino o un oloroso rassicura l’aficionado. Ma non è quello che serve davvero. Certo, anche scendere Calle Cervantes o calle Lope de Vega e seguire chi sciama verso la piazza del Jesus, per entrare nella chiesa di Medinaceli in una qualsiasi mattina di festa potrebbe servire a recuperare qualcosa di antico. E tuttavia è altro ciò che è rimasto, ciò che rimarrà comunque, accadesse anche l’irreparabile, ossia quel che molti osservatori oggi reputano sempre più possibile (e che Max David considerava completamente inimmaginabile), ossia la fine delle corride. Ma altro rimane ovunque. Ossia la morte e la necessità di celebrare la vita.

(continua)

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Matteo Nucci (Roma, 1970) è scrittore, oltre che aficionado. Negli anni Novanta a El Espinar, durante una notte interminabile, vide vaquillas correre nella plaza. Era l'inizio della febbre tauromachica

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