Il nuovo toro

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Esattamente dieci anni fa usciva Il toro non sbaglia mai. Da oggi è in libreria la nuova edizione. È più assolata, più gialla iberica. Del dipinto che Bernard Larroque mi concesse di utilizzare esistevano due versioni e questa è quella più luminosa. Dentro, c’è poco di nuovo. Molte correzioni che negli anni appassionati di vario genere mi hanno suggerito di inserire; un aggiornamento bibliografico; altre informazioni in chiusura. Sono davvero felice che il libro, da molto tempo introvabile, venga ripubblicato. Nonostante l’argomento susciti la repulsione della stragrande maggioranza dei possibili lettori, il Toro si è conquistato negli anni una progressiva fiducia. Forse perché leggendolo ci si è accorti che il mondo di cui parla non è quello che si immaginava o forse perché si è capito che la vera tragedia che è al suo centro è il confronto dell’essere umano con la morte, qualcosa che prescinde dal contesto e che soprattutto in questi ultimi tempi si è rivelato come il grande e nefasto tabù occidentale, capace di innumerevoli conseguenze drammatiche. In effetti, quando cominciai a scriverlo, ero alla feria di Jerez de la Frontera e al mattino, in un bar come ce ne sono mille nella Spagna profonda, sul bancone metallico, una mano anziana, nodosa, inondata di anelli si sporse ticchettando la moneta, poi lasciò la moneta sul banco, chiese un caffè roteando flamenca, e io sentivo la voce del vecchio gitano e sognavo i suoni del suo canto e dopo lo guardai negli occhi e lui ridendo nella dentatura d’oro, iniziò a spiegarmi come aveva deciso di fuggire la morte. Non c’entravano nulla i tori, anche se tori e flamenco si fondono nel rito e nella sfida e forse addirittura si specchiano nei riti pagani della Semana Santa. C’era invece proprio il mondo che io volevo raccontare perché nei miei viaggi in Spagna lo sentivo rimbombare fin dalla mia prima volta, per le strade vuote e brucianti di un Paese rurale in cui Franco era morto da meno di dieci anni. Nessuno lo ha detto meglio di García Lorca nel suo Duende. Una sola frase che avrò citato centinaia di volte. “La Spagna è l’unico paese dove la morte è lo spettacolo nazionale, dove la morte suona lunghe trombe all’arrivo di ogni primavera”. Così stanno le cose.

Mi ricordo un pranzo a El Espinar, con il mio amico Francesco, avevamo sedici anni. A tavola c’erano i suoi genitori, dunque la sua mamma spagnola, il fratello di sua mamma Fernando, la moglie di Fernando Elena, e le sue due nonne. Una era la nonna italiana, triestina, geniale studiosa di letteratura russa, lettrice onnivora, coltissima. L’altra era invece l’abuela, come si dice nonna in spagnolo. Ossia un monumento di austerità e durezza, divisa fra il rimpianto di Franco e l’Opus Dei. A un tratto non so cosa accadde ma Elena, la giovane e bellissima moglie di Fernando, si ribellò alla suocera, iniziò a discutere mentre quella, impassibile, rispondeva a monosillabi senza concederle un briciolo di comprensione. Allora Elena scoppiò a piangere, si alzò e se ne andò dalla sala da pranzo mentre Fernando la chiamava indietro eppoi svuotava la coppa di Magno e correva a raggiungerla. L’abuela non mosse un dito. Impassibile, indifferente, gli occhi sulla tavola, taceva. Altri aprirono nuove conversazioni e la nonna italiana che era davanti a me, con la sua parlata classica, quasi sottovoce, mormorò: “Capisci Matteo perché Hemingway amava tanto la Spagna? Dietro a tutto c’è la morte”. La morte era dietro ogni pagina del capolavoro che aveva scritto suo marito, il nonno di Francesco, Salvatore Satta. Ma quella era una morte sarda, piena di fatalismo. Questa era una morte spagnola, piena di vitalismo. Non le potevo ancora capire queste cose. Non potevo neppure capire nulla di corrida, allora. Ero un fiero antitaurino. Fernando cercava di convincermi ma era ancora presto per trovare il coraggio di far fuori i pregiudizi dell’ignoranza. E comunque in questo libro c’è anche El Espinar e quella stagione in cui ascoltai la mia prima corrida. E soprattutto c’è la morte. La morte come la sfidano in Spagna.

Negli anni, prima di scrivere il libro, ho girato il Paese in lungo e in largo. Per questo molti di quelli che se ne sono appassionati lo reputano piuttosto un libro sulla Spagna. Non lo so. Quanto a me, volevo solo scriverlo e sono orgoglioso di averlo fatto contro i consigli di chiunque mi avvertiva che non avrebbe venduto nulla, come in effetti accadde, e che era assurdo pubblicarlo dopo aver esordito con un romanzo che era arrivato in finale allo Strega. Lo amo molto, il Toro, e sono felicissimo che Cristina Palomba di Ponte alle Grazie  abbia voluto ripubblicarlo e sono felice che Emanuele Trevi abbia scritto alcune righe fulminanti, in cui fra l’altro si spiega perfettamente la morte e la vita che gli spagnoli cercano nel rito artistico. Ossia “l’arte intesa come forma della vita sospesa come un filo sottile fra i poli del gioco e della morte, dell’umano e del bestiale”. Se questa edizione troverà nuovi lettori lo ignoro, ovviamente. Nei dieci anni che sono passati, la Spagna, come l’intero opulento Occidente, è cambiata parecchio. Ma El Espinar è ancora lì con le cicogne che fanno il nido sul campanile. E a Jerez c’è ancora il bar da cui uscii inseguendo il flamenco in un vicolo scalcinato. E la razza dei tori da combattimento resiste, nonostante tutto, nonostante i tempi e la pandemia che, affossando le corride, mentre politici astuti ne approfittano per non dare aiuti al settore, ha messo in ginocchio molti seri professionisti e mandato al macello centinaia di animali. Ma se i presunti difensori del mondo animale esultano, ignorando il dramma animale (oltre a quello umano di cui del resto non si sono mai curati), magnifici tori da combattimento resistono e torneranno a correre. Torneranno a sfilare le confraternite durante la Semana Santa. E torneremo anche noi a guidare per le strade immerse nei campi, fra mulini a vento da combattere e sterminate praterie e deserti fin verso il mare di Almeria, i vicoli di Vejer de la Frontera e la piazzola di Taliga dove ci fermammo più di un anno fa al sole di marzo. Il tempo sembrava immobile e a Olivenza la feria cominciava e noi ci sedemmo per strada a bere la caña di mezzogiorno con qualche pezzo di iberico di quelli buoni. Torneremo anche lì. Perché la sfida alla morte non può finire, e anzi, quando tutto sembra agli sgoccioli e il delirio di onnipotenza umano sfiora le vette del ridicolo, arriva una devastazione a ricordarcelo. E dunque aveva ragione il toro – che infatti non sbaglia mai. Torneremo a cercare l’Alameda a Siviglia, dopo aver salutato il toro impagliato da Paco Gongora (c’è ancora, è sempre più vecchio e buono). E insomma sì. C’è tempo per ogni cosa. C’è tempo ancora.

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Matteo Nucci (Roma, 1970) è scrittore, oltre che aficionado. Negli anni Novanta a El Espinar, durante una notte interminabile, vide vaquillas correre nella plaza. Era l'inizio della febbre tauromachica

2 COMMENTI

  1. Bravo Matteo, bravi Ponte alle Grazie, sono così felice che il Toro sia tornato! L’avevo cercato sulle bancarelle, nelle librerie dell’usato, nelle maglie della rete, ma invano…. Lo prenderò al volo: la corrida mi manca e mi mancava questo libro. Suerte, Toro, alé!

  2. Bravo Matteo, ottimo libro! Io l’ho cercato dappertutto e poi l’ho comprato usato, perché non averlo nella mia libreria mi faceva stare male. È il libro che cercavo, da quando nel 2010 sono stato a Madrid e mi sono imbattuto in una corrida……non finirò mai di ringraziarti, riesci a dare una visione di un mondo che molti giudicano ma che non si sforzano di comprendere…….da leggere ASSOLUTAMENTE.

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