SANGUE E ARENA (Blood and Sand – U.S.A. 1941), di Rouben Mamoulian; con Tyrone Power, Linda Darnell, Rita Hayworth, Alla Nazimova, Anthony Quinn; sceneggiatura: Joe Swerling; soggetto: dal romanzo ‘Sangre y arena’ di Vicente Blasco Ibàňez; montaggio: Robert Bischoff; fotografia: Ernest Palmer, Ray Rennahan; produzione: Twentieth Century Fox Film Corporation – Premio Oscar nel 1942 alla miglior fotografia.
Cinema e tori è forse un binomio inesistente: a meno che non ci si inoltri nei meandri del documentarismo quello che possiamo trovare è una lunga sequenza di titoli in cui l’azione taurina in sé è presente solo in quanto corredo decorativo, buona a speziare con i consueti e logori attributi retorici storielle più o meno scribacchiate di triangoli amorosi e riscatto sociale. Cinema e tori, un matrimonio mal riuscito, tanto più nella patria indiscussa del cinema – quegli Stati Uniti che hanno saputo con il pugilato e le corse automobilistiche creare al contrario unioni solidissime. Perché se la corrida è spagnola, il teatro inglese, l’opera italiana, il cinema (con le dovute e numerosissime eccezioni) è americano. Meglio, il cinema è Hollywood. A Hollywood sono state messe a punto formule di scrittura e metodi di lavoro ancora oggi insuperati e si è creato un modello che, anche quando portatore di impegno civile o della malaugurata urgenza di esprimere un qualsivoglia contenuto, mai ha saputo rinunciare a quel livello di qualità formale, anche minimo, spesso ignorato da molto cinema europeo. Riguardate “Sangue e arena” quindi e godetevi il grande spettacolo di quell’Andalucia di cartapesta: quei caratteri un po’ esasperati, ridondanti oltre il limite, non sono poi così distanti da quello che andiamo cercando in cuor nostro ogni volta che inseguiamo i tori.
A far grande la “Grande Hollywood” anche un piccolo esercito di registi europei che negli anni d’oro portarono al servizio degli Studios sguardi e sensibilità diverse: tra questi anche Rouben Mamoulian, non esattamente europeo ma eurasiatico, per la precisione armeno, nato a Tibilisi, classe 1887 ma di formazione artistica britannica, trasferitosi nel ’22 a Londra dove darà inizio a una carriera teatrale che lo porterà prima a Broadway e successivamente a Hollywood. Il rifacimento di “Sangue e arena”, già messo in scena nel ’22 da Fred Niblo, viene affidato a Mamoulian nel ’41: si tratta di una grande produzione, grandi attori, un perfetto melodramma garantito dal testo di partenza “Sangre y arena” (1908), di Vicente Blasco Ibàňez, già successo editoriale, e ridotto per il grande schermo con la perizia cui gli sceneggiatori di quegli anni ci hanno abituato. Impossibile pensare che il cinema americano dell’epoca potesse lasciarsi sfuggire una rilettura spettacolare di un soggetto, la tauromachia, tanto carico di possibilità drammaturgiche ed estetiche; quell’industria dorata e frenetica che da lì a poco riuscirà, con il western, a creare nientemeno che l’unica forma di mitologia contemporanea, sta mettendo in scena, piaccia o no, un film potenzialmente capostipite di un genere e lo fa solo apparentemente facendosi forza dei solidi schemi dell’intreccio amoroso, in realtà tutto in “Sangue e Arena” si rivela come un’importante esperienza estetica in cui ogni singolo fotogramma rivela come, all’epoca, anche un prodotto d’intrattenimento (oggi si definirebbe nazional-popolare) fosse il risultato di un lavoro quasi chirurgico la cui origine va senza dubbio fatta risalire a un rispetto per il pubblico molto più determinante di quanto accada oggi.
Il film fu girato quasi interamente negli studi della Twentieth Century Fox, una sezione della Real Maestranza venne interamente ricostruita così come ogni strada di un’Andalusia sovraccarica e chiassosa, le poche sequenze in cui Francisco Gomez Delgado torea facendo da controfigura a Tyrone Power sono girate alla Monumental di Città del Messico, i personaggi del film si fanno figure quasi caricaturali tanto netti sono i contorni con cui ci vengono presentati: il matador analfabeta, la moglie devota, una Linda Darnell bellissima e particolarmente ispirata, fedelissimi subalterni, l’amico rivale, la donna fatale, Rita Hayworth non al suo meglio ma pur sempre indimenticabile e forse più di tutti lo spocchioso e ondivago critico taurino Natalio Curro che attraversa il film con la sua maschera di prosopopea e autorevolezza da osteria: “Io Curro dichiaro…” è quasi un tormentone. Tutto è esageratamente marcato, quartieri e taverne degne del miglior presepe vivente, immagini sacre ovunque, strade polverose e maletillas scalzi, sigari e botti di vino, cappelli a tesa larga, ruffiani e chitarre virtuose, fame, sangue e riscatto sociale, eccessivo, quasi parodistico dunque, eppure non cerchiamo noi ancora oggi, a oltre settantacinque anni di distanza da questa colorata e frastornante interpretazione yankee, ogni rimasuglio superstite di quella visione ingenuamente esotica che grazie alla tauromachia fa della Spagna, paradosso geografico, il nostro oriente?
Cosa rimane oggi del film di Mamoulian? Perchè vale la pena rivederlo con uno sguardo che non sia di sufficienza per una sceneggiatura senza lampi e una regia puntuale sì ma non certo epocale al servizio di un melò la cui banalità sembra essere scongiurata solo dal fascino dell’ambientazione? Vale la pena rivederlo ancora e ancora perché Blood and Sand è una superba pinacoteca in 35mm. Mamoulian utilizza le potenzialità espressive del technicolor restituendo, grazie a un inedito procedimento di impressione e stampa della pellicola 35mm, pennellate e accostamenti cromatici di El Greco, Velasquez, Murillo, Tiziano; le luci di Ernest Palmer e Ray Rennahan che varranno al film l’Oscar alla miglior fotografia sono potenti e suggestive, la matrice pittorica è dichiarata, la luce attraversa gli interni mutandone prospettive e fughe, linee diagonali e verticali, archi, finestre, scale, nicchie in penombra, altari, volti in piena luce, ambienti sontuosamente decorati dai colori abbaglianti si alternano ad altri arredati unicamente da quelle folgoranti luci di scena, figure in campo come tableaux vivants in una composizione di rigore stupefacente, le sequenze all’interno della capilla dell’arena sono in questo senso emblematiche. In ogni inquadratura, nessuna esclusa, tutto concorre a restituire un monumento iconografico atto a prevalere in ogni momento sulla matrice letteraria di Blasco Ibanez, il senso estetico dell’operazione, la riflessione formale, l’esercizio se vogliamo, sono prepotentemente sotto i nostri occhi. Tyrone Power/Juan Gallardo quasi seduto in trono nei momenti che precedono la vestizione, fronteggiato da Laird Clegar/Natalio Curro mollemente adagiato a proclamar sentenze, circondati da una corte maschile di subalterni, parenti, arraffoni e ruffiani in un ambiente di opulenza e colori accecanti è solo una delle tante sequenze indimenticabili. Movimenti di macchina quasi inesistenti e una mobilità dei soggetti all’interno dello spazio davvero minima determinano definitivamente il senso figurativo dell’operazione.
Curiosamente la sequenza taurina più bella l’ha girata, non accreditato, Budd Boetticher: è la danza flamenca tra Antony Quinn/Manolo De Palma e Rita Hayworth/Doňa Sol, puro toreo d’arte, guardare per credere. Magniloquente il finale, fiori e sangue sulla sabbia, l’urlo della folla dal fuori campo, riflessioni che ci tengono occupati da sempre.
Un’ultima considerazione: il film è un remake, il testo fu messo in scena una prima volta già nel 1916 dallo stesso Ibaňez in una produzione franco-spagnola, non è facile da reperire e purtroppo gran parte della pellicola è andata distrutta come triste destino della stragrande maggioranza del patrimonio filmico muto in nitrato. E’ invece del 1922 la versione di Fred Niblo con Rodolfo Valentino nella parte che sarà di Tyrone Power, attori e attrici stellari in anni in cui nessuno di loro, passando in visita al vecchio continente, si sarebbe sognato di mancare a un pomeriggio ai tori, facendosi magari fotografare divertito in barrera. Oggi il bravo Adrien Brody, per aver interpretato un “Manolete” (Menno Meyjes, 2007) trascurabile e dimenticato ha passato il tempo a scusarsi in conferenza stampa rassicurandoci di non aver ucciso alcun quadrupede durante le riprese.
Eccelente articolo!!!
E visto che la base del film e´il libro di Ibaňez, mi piacerebbe tanto vedere (da una delle penne accute della pagina) un articolo su “Sangre e arena”, un libro ai miei occhi proffondamente antitaurino ante literam.
Un articolo che fa decisamente venir voglia di vedere il film, con i migliori strumenti di lettura per goderne tutti gli elementi, interpretativi, storici e tecnici. Grazie
https://giancarlofrau.wixsite.com/iamgiancarlofrau
Il link.