Uomini tori minotauri nell’epoca della crisi

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SIVIGLIA. Poiché da queste parti la “corrida a piedi” nacque a inizio Settecento, si sente dire spesso che in nessuna città come a Siviglia sia possibile testare la salute della corrida. Quest’anno, durante la Feria de Abril, la cattiva gestione della celebre Maestranza ha mostrato terribili crepe che hanno fatto parlare di inesorabile decadenza. “Nulla è per sempre, bisogna ricordarselo” ripetevano i vecchi appassionati, inviperiti contro gli impresari dell’arena, colpevoli di meschinità che hanno tenuto fuori dal cartellone i migliori toreri e i migliori tori. Eppure la Maestranza di Siviglia non è la Scala della corrida. La Scala è Las Ventas, a Madrid. E lì, in quella che Hemingway ribattezzò la “capitale del mondo”, pochi giorni fa si è chiusa la feria di San Isidro, un mese di corride quotidiane, la feria torera più lunga del mondo, salutata dal re dimissionario Juan Carlos e da migliaia e migliaia di aficionados, come sono detti qui gli appassionati di tori.

Tornando nell’Andalusia profonda, il 19 giugno scorso José Tomas, il più grande dei matadores viventi, è tornato a sfidare tori a Granada dopo quasi due anni di assenza, riempiendo la città all’inverosimile. Messicani, francesi, italiani, inglesi, oltre a spagnoli di ogni dove. Abbonamenti alla feria cittadina cresciuti del 400 per cento. Hotel e ristoranti pieni. Un indotto di cui ancora non si rivela la magica cifra, mentre gli addetti al turismo si leccano i baffi, benedicendo il santo di Galapagar, paese in provincia di Madrid dove JT nacque 39 anni fa, per crescere con i tori e una sola squadra nel cuore: ovviamente, l’Atletico.

È davvero in crisi, allora, la corrida, come sembrano sostenere inchieste, indagini e un senso comune che, sullo slancio dell’abolizione catalana e dell’estremismo animalista dilagante, ha spinto a credere che di corride non se ne faranno più e che, se nel frattempo sopravvivono, nei paesi in cui sopravvivono, chi partecipa si deve almeno vergognare? I numeri raccontano una storia molto più complicata. Il calo di spettacoli taurini in Spagna, a cui fanno riferimento gli abolizionisti (meno 41 per cento fra 2007 e 2012), è reale. Ma non tiene conto dell’enorme e spropositata crescita del numero di corride che si era registrata a partire dalla metà degli anni Novanta. Siamo dunque tornati a valori di normalità che peraltro per i veri esperti convengono alla buona salute dell’arte tauromachica (651 corride – e si intendono corride vere e proprie – contro le 630 del 1993). Quanto all’interesse che secondo gli abolizionisti è in continuo calo, nel 2012 le corride spagnole hanno venduto 5.496.452 biglietti generando un introito di oltre 177 milioni di euro. Tra gli spettacoli culturali (la corrida è cultura non sport) soltanto il cinema straniero ha fatto meglio in Spagna (quasi 450 milioni).

I dati peraltro non includono tutti quegli spettacoli taurini che vanno sotto la denominazione di “feste popolari” con cui la dimensione dell’introito cresce fin quasi a raddoppiare (altri 126 milioni di euro per un totale di 303.070.567 euro). L’impatto economico indiretto, come nel caso di JT l’altro ieri, è però quel che davvero conta. Aldilà dei biglietti strappati, secondo gli studi, si devono aggiungere almeno altri 150 milioni di euro, solo calcolando il movimento degli spettatori. Quanto ai cosiddetti effetti indotti diretti e indiretti (in sostanza, il movimento economico generale, inclusi i trasporti) l’impatto economico mosso dal carrozzone taurino sfiorava i 600 milioni di euro nell’anno più caldo della crisi, il 2012. Mica poco.

I numeri però non possono raccontare tutta la storia. Servono, agli osservatori, per contestare l’idea che l’interesse nei confronti dei tori sia scarso e antieconomico e che la sopravvivenza di un mondo tanto arcaico sia dovuta alle sovvenzioni statali (è semmai il contrario: l’esempio dell’Extremadura detta legge. Qui un festival di teatro lungo due mesi ha ricevuto 1.400.000 euro in sovvenzioni per 68.000 spettatori e 1.200.000 euro di entrate, mentre le quindici corride non sovvenzionate hanno strappato oltre 80.000 biglietti per tre milioni di euro di entrate). In quanto tali, i numeri tuttavia non possono arrivare al nocciolo della questione. Il punto è un altro. La sfida dell’uomo al toro ha ancora senso in una dimensione globale così profondamente cambiata rispetto al primo Novecento?

Basta uno sguardo alla graphic novel appena uscita in libreria, la prima graphic novel torera. Matador (di M. López Poy e M. Fernández, Diábolo Edizioni, pp. 81, euro 14,95) ci spinge a entrare in un mondo ormai perduto. La storia di Lorenzo Pascual García, soprannome torero Belmonteño, torero cui sfuggì il vero successo, comincia quando in Spagna sta per dilagare la guerra civile portandosi appresso anni di estrema povertà. Il libro, in capitoli ogni volta introdotti da un breve riassunto della storia politica e culturale del Paese, ci ricorda che quanto è capitato nel “secolo breve” è ormai alle nostre spalle per sempre. Il mondo della tauromachia sembra perdersi nel passato.

Del resto, la cosiddetta epoca d’oro del toreo, quando si scontrarono i due più grandi matadores della nostra storia, Joselito e Belmonte, era già chiusa nel momento in cui Ernest Hemingway cominciava a calcare le arene di Spagna nel 1923 (Joselito morì nell’arena il 16 maggio 1920). E se la necessità di fuggire l’indigenza e il tentativo di riscatto continuarono a passare attraverso quella che qui è ancora chiamata “festa nazionale” il motivo fu tutto nelle condizioni in cui versava la Spagna. Più tardi vennero film e un’epica di moda. Ma anche i favolosi anni 60, l’epoca in cui attori e attrici affollavano gli spalti per cercare un flash, è ormai scomparsa. E allora qual è il senso oggi della sfida dell’uomo all’animale? Hanno ragione gli esponenti di Podemos, la lista politica che ha sorpreso tutti alle ultime europee spagnole, a chiedere la definitiva abolizione della corrida?

Studi antropologici e sociali possono offrire interpretazioni e mostrare una via, ma la vera e propria risposta arriva soltanto sul campo. E il campo qui ha due facce convergenti. Toro e uomo. Da una parte gli allevamenti, dunque, dall’altra il nostro mondo e la punta del triangolo dove uomo e toro s’incontrano: la plaza de toros. Quanto agli animali, basterebbe una visita a uno dei numerosi eden in cui si allevano tori da combattimento. Parlo di luoghi paradisiaci perché nessuno, che si tratti di taurini o antitaurini, semplici amanti della natura o animalisti sfrenati, potrebbe mai resistere alla bellezza di queste riserve naturali a cielo aperto dove si salva dall’estinzione la razza antichissima del toro da corrida. Diceva Hemingway, usando un paragone perfetto, “il toro da combattimento sta al toro domestico come il lupo sta al cane”. È necessario infatti ricordarsi che stiamo parlando di una razza a se stante che per vivere ha bisogno di spazi immensi (ogni toro deve avere a disposizione almeno due ettari di terreno libero), spazi la cui natura è incontaminata perché nessuno si sognerebbe mai di scavalcare recinzioni su cui è scritto “Pericolo. Tori selvaggi”.

Andate in un allevamento di tori, che vi interessi o meno la corrida, se avete a cuore l’ecosistema e la sua difesa – sia dalle mire degli immobiliaristi che da quelle di allevatori intensivi. Se non ne avete voglia, ma vi trovate in Spagna, prendete almeno un’automobile e viaggiate lungo la cosiddetta “ruta de toros” tra Jerez de la Frontera e Medina Sidonia. È un’esperienza che non si può raccontare e che è sufficiente a decretare la vitalità di un mondo dato troppe volte per finito. Mentre guidate tra campi immensi punteggiati da figure che incarnano forza, coraggio e fierezza, non lasciatevi prendere dall’idea che dovranno morire. Tutti gli animali allevati per produrre carne muoiono per mano dell’uomo. Senonaltro quelli destinati a finire nell’arena avranno vissuto almeno quattro anni (il toro da corrida non può essere combattuto prima) e la loro carne finirà sul banco del macellaio accanto a quella del vitello che ha vissuto in pochi metri quadrati i suoi sei mesi di vita. Non pensate alla morte, per ora. Per quella ci sarà tempo nella plaza de toros. Qui, nell’immensità dei pascoli, ricordatevi solo che l’unica conseguenza immediata della fine delle corride sarebbe l’estinzione della razza e la chiusura del tipo di allevamento più sano che il nostro Occidente abbia mai considerato.

Ma veniamo all’uomo e al suo mondo. Nel secondo decennio del nuovo millennio sono ormai dimenticati i ragazzini che percorrevano le strade di Spagna in cerca di un sogno (i maletillas detti così per il fagottino di tela in cui chiudevano le quattro cose di cui erano in possesso lanciandosi alla ventura) e nessuno penserebbe mai di sfuggire alla povertà facendosi torero. Eppure le scuole taurine sono piene e toreri continuano a nascerne. Com’è possibile? Al di là delle interpretazioni – innumerevoli – una cosa è certa: il confronto con la morte non ha tempo. Comunque stiano le cose, si continua a morire. Anche in un’epoca in cui si idolatra l’eterna giovinezza. Benché sia rimossa, la fine resta inesorabile: lontani da casa, dagli sguardi indiscreti, chiusi in asettiche cliniche, si continua a morire. Nonostante le chirurgie estetiche, le creme contro l’invecchiamento, i magici elisir, si continua a invecchiare e morire. E la questione della fine – assolutamente metastorica, del tutto al di là dei tempi in cui viene posta – continua a richiedere una riflessione. Il confronto con la morte resta un passaggio obbligato. Ecco la sfida tauromachica allora. Da millenni il luogo dell’incontro fra l’uomo e la sua parte più oscura, il suo toro, la sua paura più profonda, la fine.

Nella plaza de toros assistiamo a tutto questo. Viviamo in prima persona e fuori dai simbolismi la sfida alla morte. Celebriamo, nell’ultimo rito laico, il confronto dell’uomo con se stesso e con la sua paura più grande: il suo toro da conquistare, dominare e semmai innalzare in un’altra dimensione. Tanto che chi, infine, avrà il coraggio e il desiderio di partecipare all’incontro fra uomo e animale, potrà sperare di assistere all’evento più unico e sognante che la tauromachia moderna ci conceda: l’indulto. La conclusione più straordinaria e folle della sfida alla morte. Quando torero e toro si uniscono in una danza perfetta. Quando la carica rettilinea dell’animale è diventata definitivamente curvilinea tracciando cerchi di arte sull’arena. E quando dunque uomo e animale cominciano a scambiarsi i ruoli. L’animale assumendo un’umanità impossibile. L’uomo assumendo la sua stessa animalità. Il momento del minotauro, l’unione perfetta e innaturale che spinge il pubblico, in estasi, a chiedere la salvezza del toro. L’indulto catartico. L’animale che viene salvato per tornare negli allevamenti e farsi padre di tori altrettanto forti e coraggiosi come si è dimostrato lui. Mentre l’uomo ha la sensazione immensa, folle, ebbra, di aver trasfigurato, almeno per un istante che sembra eterno, la propria mortalità.

Solo il mundillo taurino spaventa gli aficionados

Il vero pericolo per la sopravvivenza della corrida, secondo gli esperti, non viene dall’esterno. L’abolizione catalana è stata vissuta con rabbia ma senza eccessive preoccupazioni. È noto a tutti infatti che la spinta abolizionista era legata strettamente a motivi politici, allo storico indipendentismo catalano, alla “festa nazionale” vissuta come simbolo di un’appartenenza ispanica da conquistatori. Tuttavia, ciò che è seguito a quella legge, che fosse più o meno lontano da questioni profonde relative alla corrida, ha senza dubbio reso improvvisamente fragili le certezze di chi difende la cultura tauromachica. E proprio tra i maggiori difensori è salito il grido d’accusa.

La corrida, soprattutto in Spagna, è messa in pericolo dalla miopia e dall’incapacità dei principali uomini di potere del carrozzone taurino. La decadenza dell’arte risiederebbe soprattutto in una ferita faticosamente rimarginabile. Da anni, vengono infatti privilegiati allevamenti di tori cosiddetti commerciali, che crescono animali di sangue blando (la casta dei famosi Domecq) poco forti e selvaggi pur di favorire e rendere più semplice il successo dei toreri star. Il risultato di questo sforzo accomodante è nefasto: tori deboli, toreri sempre più “volgari” (l’aggettivo che nell’argot taurino contraddistingue chi va in cerca di successi senza meritarli, senza vera arte), corride noiose. Rompere il meccanismo però appare quanto mai complesso. Tra i principali attori nell’organizzazione di un evento taurino domina infatti il più nefasto conflitto d’interesse.

Tre infatti sono le figure dominanti nella contrattazione di uno spettacolo: l’impresario che gestisce la plaza e che paga toreri e allevatori; l’apoderado, ossia il procuratore del torero; il ganadero, ossia l’allevatore. Se questi ruoli non vengono tenuti rigorosamente distinti (e nessuna legge lo impone) è evidente che un impresario che è anche procuratore e allevatore finirà per privilegiare i suoi tori e i suoi toreri e con quelli altrui scambierà favori. Il mondo taurino in questa maniera si chiude nel cosiddetto “mundillo”, un circolo ristretto e chiuso, quantomai criticato, fatto di conoscenze, piaceri, ripicche, vendette, mafie. Un club di potenti che impedisce l’accesso a figure, culture, apporti estranei a quegli interessi privati, dissimulati sotto il marchio di una presunta tradizione. Il risultato è l’incapacità di rinnovarsi e soprattutto la noia, quella terribile noia, l’aburrimiento che per gli spagnoli è peggio della morte.

Visioni e letture 

La declinazione spagnola della sfida al toro non è antichissima, come si sarebbe portati a pensare. Se la tauromachia in senso ampio è attestata in Grecia già a Creta, la corrida a piedi si sviluppò dalla corrida a cavallo a inizio Settecento. Prima erano solo i nobili che potevano permettersi il cavallo per sfidare tori. A piedi invece l’arte diventa popolare. Le corride si cominciano a organizzare nelle piazze centrali delle città (Plaza Mayor a Madrid, per esempio) e a metà Settecento si costruisce la prima arena non a caso chiamata “plaza de toros”. Il rito è sostanzialmente identico da oltre due secoli. Dopo Francisco Romero, nato a Ronda nel 1695 e considerato primo torero a piedi, si sono succedute figure straordinarie e epiche che hanno ispirato innumerevoli forme di arte. Goya e Picasso sono i nomi più ricorrenti per l’arte figurativa. Ma una lista adeguata prenderebbe molte pagine.

Per chi voglia informarsi, le enciclopedie sono soltanto in lingua: in spagnolo il celebre Cossío, ribattezzato “la Bibbia dei tori”. In francese, a cura di R. Bérard, La Tauromachie. Histoire et Dictionnaire (Laffont, 2003). Film, documentari e libri si reduplicano ogni anno. In lingua italiana però le opzioni si restringono notevolmente. Un magnifico film è arrivato sui nostri schermi un anno fa:Blancanieves di Pablo Berger, muto in bianco e nero. Di un italiano invece, Francesco Rosi, Il momento della verità (1965) che ben racconta il mondo della corrida a metà Novecento. Un documentario andato in onda sulla Rai è Il pensiero e l’emozione (1987) di Gianni Barcelloni e Giorgio Montefoschi, immersione in tori e flamenco. In libreria, invece, tradotte in italiano, sono poche le opere reperibili. Svetta Hemingway con Morte nel pomeriggio, ribattezzato il Moby Dick della corrida e Un’estate pericolosa sulla sfida fra Dominguin e Ordoñez.

Tra le rarità, il prezioso libriccino di un poeta spagnolo (José Bergamín, L’arte del toreare e la sua musica silenziosa, ed. SE, 1992) e l’inchiesta romanzata sulla vita del mitico Cordobés (D. Lapierre e L. Collins, Alle cinque della sera, Mondadori, 1983). Solo in biblioteca invece Max David, Volapié. La Spagna torera dal Cid al Cordobés, Bietti 1969). Usciti recentemente, il mio romanzo-saggio, Il toro non sbaglia mai (Ponte alle Grazie, 2011) e il saggio antropologico di Matteo Meschiari, Uccidere spazi. Microanalisi della corrida (Quodlibet, 2013).

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