Oltraggio alla Catalogna

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“Meglio il silenzio. Mai umiliare lo sconfitto”. Era luglio, a Huelva, nel più profondo sud di Spagna, e la notizia della richiesta di aiuti da parte della Catalogna a Madrid campeggiava su tutti i giornali. Nel bar si rideva e gli uomini si davano pacche sulle spalle. Sembrava che fosse uscito il risultato di un match in cui l’eterno sconfitto ha rovesciato il risultato finale. Poi il vecchio appassionato di corride si è alzato in piedi e ha messo tutti a tacere. Aveva ragione, certo, ma per chi conosca un po’ la Spagna e decenni di polemiche segnate dallo spirito indipendentista catalano contro lo Stato centrale, non suonavano strane neppure le risa di un bar. Tutti sanno, del resto, che per anni la Comunità Autonoma di Catalogna ha ricevuto finanziamenti da Madrid, pur sbandierando una sorta di superiorità, soprattutto economica. La contraddizione esplose al termine dei ventitré anni di governo di Jordi Pujol, nazionalista e cattolico, che si avvicinò ai conservatori di Aznar, fino a sostenerli in cambio di aiuti. Era, secondo i critici più drastici, la solita “Barcellona pesetera”, legata ai pesos, guidata da una borghesia imprenditoriale tanto indipendentista quanto intelligentemente pronta a far fruttare il legame con Madrid. Mai però i toni delle richieste catalane avevano sfiorato la dimensione drammatica di questi mesi.

Oltraggio alla Catalogna, dicono alcuni. Come se l’esito della crisi economica si portasse via una storia di ideali che hanno fatto di Barcellona un luogo dell’anima oltreché di viaggio e semmai di approdo. I più raffinati analisti però raccontano un’altra storia, una storia di sgretolamento già chiara da almeno due decenni e che forse s’incarna nella maniera più emblematica in uno dei simboli della città: il Barça Futbol Club. “Més que un club” è lo slogan, ripetuto nel logo del sito internet. Più che un semplice club, insomma. La squadra dei sogni, il calcio come atto estetico e come epos. La storia ultracentenaria di un team a lungo non vincente ma unico. E soprattutto antifranchista. Al punto che il suo presidente, Josep Sunyol, nel 1936, fu fucilato dai fascisti nella Sierra de Guadarrama, dove Hemingway avrebbe ambientato Per chi suona la campana. Manuel Vázquez Montalbán, scrittore catalano tra i più acuti, trovò per il Barça la definizione perfetta: “braccio disarmato dell’indipendentismo”, ma aveva anche intuito che il calcio magico a cui cominciò ad approssimarsi la squadra dai tempi di Cruyff (e a cui più tardi sarebbe incontestabilmente arrivata), quell’ideale da contrapporre al calcio mercificato, si sarebbe scontrato con la dimensione sempre più globale del club, una dimensione oggi incontestabile, con tifosi-soci sparsi in tutto il mondo, addirittura in Giappone.

Le contraddizioni della Catalogna, in fondo, stanno tutte qui, in questo rimbalzare fra regionalismo e globalizzazione che un momento di svolta, epocale e paradigmatico, lo trova nel ‘92, con le Olimpiadi più riuscite della nostra storia recente. In quell’anno, Barcellona diventa la vetrina della modernizzazione di una Spagna progressista e illuminata ma ben disposta a perdere le proprie radici. Lo sventramento della città, osservato con dolore dagli intellettuali, prostrati di fronte alla distruzione del Barrio Chino, diventa simbolico. Per molti è inevitabile che la Barcellona di Gaudì, culla del modernismo architettonico, debba diventare anche culla del postmoderno. Ma già si comincia a rimpiangere qualcosa che pare scomparso per sempre. La città omaggiata da Orwell non esiste più da un pezzo. Del sogno anarchico, per esempio, non restano che fenomeni periferici e folkloristici, semmai incarnati nella fierezza di Gracia, un tempo cittadina fortino fuori Barcellona e oggi centro della movida di sinistra, alternativa ma globalizzata. Del resto, la città è notoriamente capitale di un altro fenomeno esemplare della globalizzazione europea: il progetto Erasmus (si veda il film manifesto: L’appartamento spagnolo). Eppure gli studenti stranieri si trovano a frequentare corsi sempre più spesso offerti in lingua catalana. Dopo gli anni di sofferenza sotto Franco, con il divieto di coltivare le origini e la lingua, adesso la “dittatura” del catalano rischia di rivelarsi altrettanto violenta. Per le strade, è ormai difficile imbattersi in indicazioni bilingue. Nei negozi e in librerie celebri come la Central, capita, anche allo straniero, di porre domande in castigliano per sentirsi rispondere in catalano. E dire che i principali scrittori della regione non usano certo il catalano. Il più famoso, il bestellerista Carlos Ruiz Zafón, neppure abita più qui. Preferisce Los Angeles.

Anche la corrida è stata bandita in nome dell’indipendentismo antispagnolo. Ma cosa l’ha sostituita? Barcellona, famosa perché negli anni d’oro della tauromachia tenne in piedi contemporaneamente tre plazas de toros, è oggi sede di tre plazas sbarrate, una di esse addirittura trasformata in centro commerciale. Saranno gli ipermercati a invadere anche la mitica Monumental dove in questi anni il più famoso torero, José Tomás, nonostante le ascendenze madrilene, apriva e chiudeva la propria stagione con la bandiera catalana, la senyera, al collo? Albert Boadella, attore e drammaturgo amante del paradosso e della critica, divenuto negli anni anticatalanista, sostiene che nulla come il sentimento antitaurino può ridare forza alla corrida. Sarà così? La domanda a cui nessuno osa rispondere adesso è piuttosto un’altra: dove troverà i soldi Barcellona per il risarcimento milionario dovuto agli impresari taurini?

Il futuro, insomma, che sia omaggio o oltraggio, a prescindere dalla crisi, è in bilico costante su questa contraddizione insanabile: regione o globo? Per ora quel che è sicuro è che gli eredi di Dalì e di Mirò non si vedono all’orizzonte e che il fenomeno culturale più esplosivo degli ultimi anni è semmai nel cinema, ma in un settore particolare: il porno. C’è addirittura una star mondiale catalana, un attore lanciato da Rocco Siffredi. Il suo nome è Nacho Vidal. Nei film però non parla la sua lingua d’origine.

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