Tragedia

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L’ Instituto Juan Belmonte sta mettendo assieme interventi che tentano di spiegare il senso della tauromachia nella sua forma moderna. Il mio contributo, pubblicato grazie alla traduzione di Vicente Royuela, racconta quella dimensione che si apre nella tragedia antica secondo Friedrich Nietzsche così come nella corrida de toros. Una dimensione necessaria a comprendere la nostra animalità e il nostro posto nel mondo.

La tauromachia nella sua forma moderna (quella formalizzata in Spagna nel XVIII secolo) è l’unica vera erede della tragedia antica.

La tragedia nacque in Grecia dal canto per il capro (tragos), il canto dionisiaco che celebra la vita e la morte, che esalta la finitezza della vita umana, dunque la mortalità degli uomini, perché la morte sia sconfitta in un atto di vitalismo. Un atto effimero e vano ma proprio per questo glorioso.

Centro della tragedia antica è il coro. Stando all’interpretazione di Friedrich Nietzsche in La nascita della tragedia dallo spirito della musica (1872), funzione del coro, prima della sua decadenza che fu definitiva con Euripide, era quella di spingere ogni spettatore, con la sua musica dionisiaca, a perdere il senso della propria individualità, abbandonandosi a una sorta di estasi in cui la parola (il logos) non aveva più valore. A dominare era l’animalità che accomuna gli esseri umani agli altri esseri, tutti caratterizzati da un’esistenza destinata a finire.

L’essere umano è distinto dagli altri animali perché dotato di logos, ossia parola e ragione (la definizione classica è “uomo animale razionale” perché ratio in latino traduce logos). Solo liberandosi del logos, in quell’ebbrezza estatica tutta musicale e dionisiaca, l’essere umano può perdere il senso della propria individualità (Il principium individuationis – diceva Nietzsche), abbandonarsi alla propria animalità, sentendo profondamente la propria finitezza, vivendo fino in fondo nel dominio della morte al punto da far vincere la vita.

Il cuore della tragedia antica rivive in maniera paradigmatica nell’incontro fra uomo e animale che è il centro della corrida. In scena, come sa chiunque abbia una minima dimestichezza con il rito tauromachico, c’è un essere umano e un animale che nella migliore rappresentazione si uniscono quasi fondendosi. L’uomo, il matador, perde via via il logos assimilandosi al toro. Il toro, modificando la sua carica animale da rettilinea a curvilinea, assume via via caratteri umani, assimilandosi all’uomo. I due attori si danno l’uno all’altro, respirando assieme, danzando, vincendo la morte. È la figura del Minotauro quella che si forma al centro dell’arena al termine di una tragedia ben riuscita, quando l’ultimo terzo della cerimonia spinge gli spettatori all’estasi, alle lacrime, alla perdita del senso della propria individualità, all’abbandono all’animalità. Sappiamo tutti, noi aficionados, come in quei momenti una tristezza profonda ci lacera il petto: è la morte a cui siamo tutti consegnati in quanto animali finiti. Eppure, assieme a quel dolore, c’è un vitalismo che ci spinge all’esaltazione. Abbiamo voglia di abbracciare chi è vicino a noi, chiunque sia – uomo, donna, vecchio, bambino – per sentirci uniti, noi tutti animali mortali. Non abbiamo parole per dire quel che proviamo. La parola, il logos, non serve più. Siamo tutti vicini, abbiamo visto in scena il Minotauro, ossia l’essere fantastico in cui noi umani ci specchiamo per ritrovare la nostra animalità. Abbiamo sentito l’eternità dell’effimero.

Fra le arti effimere, la tauromachia moderna è quella che meglio di qualsiasi altra rappresentazione riesce a dare l’idea dell’eterno. Anche in questo erede della tragedia antica, la corrida ci fa sentire che quell’esperienza volatile, non ripetibile, non agguantabile nonostante televisioni e video di ogni tipo, scardina a tal punto le coordinate spazio-temporali da farsi eterna. Perché gli esseri umani, detti “effimeri” dai poeti antichi greci, sono gli unici esseri eterni. Eterni perché sacri, perché superiori agli dèi proprio in quanto effimeri, perché le loro decisioni non sono replicabili, mentre quelle degli dèi – per via della loro immortalità – sì. La corrida mette in scena gesti effimeri, non replicabili, in cui la morte è dietro l’angolo e proprio per questo sono gesti eterni.

In un tempo in cui gli esseri umani sussurrano paroline di compassione a cagnolini e gattini, umanizzandoli, antropomorfizzandoli, dunque non rispettandone l’animalità e l’assenza di logos; in un tempo in cui gli esseri umani rifiutano il confronto con la propria animalità e con la natura mortale che tutti ci caratterizza, rinchiudendo l’idea della morte in uno spazio di vergogna e nascondimento; in un tempo in cui la vita non vince vivendo la morte, ma s’illude di prevalere tentando di annullare l’invecchiamento attraverso grottesche pratiche di chirurgia estetica; in un tempo in cui la tragedia greca è uno spauracchio e si preferisce tifare per giocatori che esaltano sport dove conta solo il denaro; in un tempo del genere, in cui il rito non ha più senso e l’estasi animale mette paura anziché restituire coraggio; in un tempo così, niente di più semplice che l’unica vera erede della tragedia antica sia sotto processo e si sia arrivati al punto di chiederne addirittura l’abolizione.


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Matteo Nucci (Roma, 1970) è scrittore, oltre che aficionado. Negli anni Novanta a El Espinar, durante una notte interminabile, vide vaquillas correre nella plaza. Era l'inizio della febbre tauromachica

1 COMMENTO

  1. Grazie Matteo,
    per riuscire a descrivere le sensazioni che si possono provare presenziando una corrida.
    Recentemente sono tornato Madrid dopo un’assenza prolungata dovuta anche alla pandemia. Ho trovato una città profondamente cambiata. Sono solito alloggiare en la carretera de San Jeronimo (La capitale del mondo), e appena arrivo a Sol, fermarmi a bere una cana en La Taurina. Cerveceria per turisti, senz’altro. Era chiusa. È bastato poco per scoprire che a Madrid non ci sono più cervecerias con cabezas de toros nè adornate con carteles. La stessa Cerveceria Alemana ha perso qualcosa del suo fascino.
    Qualche giorno dopo ho trovato La Taurina aperta. Senza i tori alle pareti, né il toro all’ingresso. Né i clienti. Il dueno ha lamentato essere stato oggetto di continue manifestazioni animaliste ed antitaurine. I tori sono stati rimossi. Los azulejos ancora no.
    In un locale vuoto il dueno mi ha confidato, tra le lacrime, “cosa potevo fare? Io vivo vendendo birra, e questa è l’evoluzione … se in peggio o in meglio … non lo so”

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