Tardes de soledad

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Quasi tre mesi fa ho finalmente visto sul grande schermo del cinema Troisi a Roma, Tardes de Soledad, il film di Albert Serra che racconta Roca Rey e la sua cuadrilla nella sfida al toro. Aspettavo da molto tempo di vedere un’opera così singolare, capace di trovare spettatori estranei al mondo dei tori e di colpire e suscitare dibattito. Opera premiata e incensata, peraltro. Discussa benevolmente. E benvenuta in un tempo di correttezza e cliché da benpensanti.

Era inizio giugno, in sala era presente il regista, e nella sera calda, tornandomene a casa, immaginavo già di scriverne, come poi non ho fatto, rimandando di continuo uno sforzo che era percorso da un tarlo. Perché ero stato contento, certo, e molti aspetti del film mi avevano impressionato favorevolmente, ma c’era qualcosa che invece non andava, non andava proprio, non mi andava giù. E dovevo trovare il modo giusto di raccontarlo.

Tardes de soledad è un film bello e importante. Per chi ama i tori, è innanzitutto un’opera che dà respiro perché spinge a confrontarsi in maniera laica con un mondo generalmente oggetto di pregiudiziale condanna. Molti sono gli spettatori coinvolti dal fenomeno del film che hanno avuto l’occasione di superare ostacoli ideologici che prima ritenevano almeno apparentemente insormontabili. Più in particolare, invece, chi abbia già un rapporto – più o meno intenso – con la tauromachia nella sua forma moderna, troverà nel film qualcosa che in genere è negato. Immagini di particolari che sfuggono alle riprese e all’occhio: le corna del toro mentre carica, il suo sguardo, la sabbia e i piedi del torero, e così via. Nonché soprattutto le parole dei subalterni durante e dopo la corrida. Un aspetto del film davvero notevole. Il regista infatti ha usato strumenti all’avanguardia per registrare ogni scena, inserendo microfoni e telecamere ovunque, tanto che abbiamo la possibilità di ascoltare dialoghi e commenti generalmente negletti. Ne viene fuori un insieme di parole davvero stupefacente. Non solo per le frasi che sembrano uscire da oscurità divine durante le fasi concitate della lotta. Ma anche per indicazioni e chiose che hanno l’aria di versi poetici d’improvvisazione orale, nei momenti in cui la cuadrilla, chiusa nel furgoncino torero, torna in hotel dopo la corrida.

Un altro aspetto, poi, colpisce chiunque conosca l’atmosfera di una corrida. E mettiamola così. Notoriamente, quel che nessun film può restituire è l’odore di un’arena, quel misto composto dall’afrore del toro, il puzzo di escrementi equini, l’aroma di tabacco nero e di sigari cubani, i profumi delle ragazze scintillanti, i dopobarba di uomini già ubriachi e tutto quel che compone il sottofondo della lotta fra uomo e toro. E tuttavia quest’odore in Tardes de soledad ci viene quasi il sospetto che lo stiamo respirando. Paradossalmente infatti esso viene quasi risvegliato da un suono. È un suono che quasi mai cogliamo bene come ci è possibile fare durante la visione del film. È un respiro. Il respiro degli uomini e il respiro del toro. Il respiro degli animali mortali che in pista si ritrovano così vicini tanto da sentirsi comuni per la vita che soffia dentro di loro prima di darsi la morte.

Il cinema taurino non ha mai offerto un documento di questo genere. E quindi è giusto festeggiarlo e celebrarlo. E tuttavia c’è un tuttavia.

Devo raccontare infatti anche tutto quel che mi ha infastidito, mi ha lasciato perplesso e ha costituito una specie di tarlo. Tarlo che dopo quasi tre mesi è ancora qui a segnare il ricordo del film. Dunque niente di casuale, momentaneo, o generato da contingenze in cui cade la capacità umana di entrare in una sorta di empatia con l’opera e l’artista.

Ma veniamo alle questioni fondamentali. Innanzitutto lo sguardo. Come ho detto, tra le scelte più determinanti e ambiziose di Albert Serra c’è una fotografia che ritaglia particolari della lotta fra uomo e toro, limitandola spesso a frammenti. Ciò significa che le scene in cui lo spettatore si immerge sono completamente decontestualizzate. Non vediamo mai il pubblico. Non vediamo mai la danza. Non vediamo mai ciò a cui siamo in genere abituati. E questo non è di per sé un limite, ma certo impedisce la minima comprensione di ciò che accade nell’arena. Senza pubblico, la corrida è come il teatro antico senza il coro. Senza danza, la corrida è pura lotta senza arte. 

Del resto il film non ha certo ambizioni didascaliche e il suo scopo non è neppure quello di mostrare ciò in cui la corrida consiste. Ma il fatto è che della tauromachia a Serra non importa assolutamente nulla. Lo ha confermato lui stesso a Roma, quando, dopo la proiezione, ha approfondito alcuni temi del film. Premesso che sarebbe sempre bello evitare di ascoltare un artista che parla della propria arte e premesso anche che ascoltare Albert Serra nei suoi toni di enfasi autocelebrativa e sprezzante può risultare indigesto, quel che ha detto non era che una conferma di ciò che avevamo visto sullo schermo. Ai suoi occhi, i toreri sono dei pazzi che fanno con grandissima competenza un mestiere fuori dal mondo e dal tempo, rinchiusi in una bolla assolutamente lontana da qualsiasi dimensione umana. Per questo, le parole che si scambiano non hanno alcun valore se non nell’assurdità apoteosica che esse esprimono cogliendo vette in cui il ridicolo si mescola al folle e al geniale. 

Poiché dunque di ciò che viene raccontato non si tenta spiegazione alcuna (neppure in forma di domanda), nel film è assente qualunque sospetto circa il rito che è la dimensione dominante di ogni tauromachia nella storia umana. È assente la vetta artistica a cui il torero aspira nel suo movimento. È assente la ricerca dell’estasi che è la punta divina in cui talvolta si realizza il rito.

Ho ripensato a tutto questo pochi giorni fa osservando più volte il modo in cui David de Miranda ha affrontato il toro Enamorado di Victoriano del Río, il 19 agosto scorso a Malaga. In quella lotta a tratti folle e in quella lontananza da tutto ciò che fanno i mortali, il rito raggiungeva il sublime dell’estasi, quando toro e uomo diventano un’unica cosa e il brivido ci spinge a sentirci parte di quell’animalità mortale che è il senso della nostra breve apparizione come esseri viventi. 

Non credo che tutto ciò possa suscitare l’interesse di Albert Serra, autore di un film importante e tuttavia, per me, deludente. Perché quando ci si sottrae di fronte al senso della bellezza e dell’arte, certi di essere in proprio autori di bellezza e arte, si è forse dimenticata la misura della nostra umanità. 

(Il film sarà proiettato sabato 6 settembre alle ore 20:30 a Milano, presso la Fondazione Prada. Sarà presente in sala il regista a dialogare con Paolo Moretti)

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Matteo Nucci (Roma, 1970) è scrittore, oltre che aficionado. Negli anni Novanta a El Espinar, durante una notte interminabile, vide vaquillas correre nella plaza. Era l'inizio della febbre tauromachica

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