Cinema taurino: di un’italiana lo studio definitivo

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“Il Cinema taurino spagnolo: una storia culturale” di Silvia Caramella è un’opera il cui nucleo nasce come tesi dottorale discussa all’Università di Sunderland, in Inghilterra. Appare singolare, pur in ambito accademico, dedicare al genere taurino una ricerca che partendo da uno studio su “Matador”, film di Pedro Almodovar del 1986, diventa una dettagliata analisi storica che dalle origini della settima arte arriva ai giorni nostri. Questo testo oggi è un libro, per inciso un oggetto prezioso anche nella sua veste grafica, pubblicato grazie all’Università di Siviglia, Fundacion Real Maestranza de Caballerìa de Sevilla, Fundacion Estudios Taurinos. Singolare, dicevamo, almeno fino al momento in cui si scopre che solo in Spagna sono state prodotte oltre 300 pellicole in poco più di cent’anni, il che rende doveroso un approfondimento critico sull’argomento. Ci ha pensato Silvia Caramella cui va secondo noi il ringraziamento da parte di tutto l’universo cinefilo, prima ancora che di quello taurino, per aver riportato alla luce tale patrimonio. 

Qual è stata la spinta iniziale, quali gli studi e le curiosità che hanno dato vita a questo percorso di approfondimento e quali le difficoltà. Oggi, epoca in cui crediamo che tutto sia facilmente a disposizione, sappiamo quanto invece moltissimo materiale sia in realtà irreperibile se non attraverso archivi e collezioni private, ci può raccontare fin dove l’ha portata questa caccia al tesoro?

La genesi di questo lavoro è stata veramente singolare: dopo una decina d’anni passati lavorando negli studi di Cinecittà prima e in seguito in una società di produzione televisiva spagnola, ho deciso di riprendere gli studi. Già laureata in teologia e avendo studiato cinema alla Gregoriana intendevo fare un master in cinema e teologia. Avendo a disposizione una serie di titoli da poter analizzare e su cui preparare il mio esame decido per “Matador”, di Pedro Almodòvar, convintissima di poter trovare un gran numero di pubblicazioni sul tema. Sapendo come la cinematografia spagnola, così come quella hollywoodiana, vanti una nutrita offerta di pellicole taurine, mi ero convinta di poter risolvere le ricerche con minimo sforzo, tanto più venendo dalla Spagna, conoscendone la lingua e il mondo culturale legato alla corrida. Scopro con grande sorpresa che in realtà sul cinema taurino non esistono che 4 o 5 pubblicazioni a carattere storico, nessuna delle quali nata da un presupposto culturale legato all’identità. Nella totale assenza di letteratura previa mi decido a colmare il vuoto immergendomi completamente nella ricerca. Fare un dottorato su un genere non studiato è un’impresa enorme e richiede un grande investimento di tempo e risorse ma è quello che voglio fare e che mi diverte. Provengo dal cristianesimo sociale e da anni di militanza nel Pci, mi affido al principio gramsciano della conoscenza, in tal senso ho deciso che la ricerca, l’analisi, l’approfondimento dovessero contenere tutto: conoscere tutto, vedere tutto, prendere atto con grande meticolosità di quanto fosse oggettivamente disponibile sull’argomento. Ho iniziato a contattare tutti i principali archivi filmici: Filmoteca Española, Filmoteca Valenciana, Filmoteca de Andalucia, Filmoteca Catalana; ho proseguito la ricerca spostandomi prima in Portogallo e poi per due mesi in Messico continuando a visionare e catalogare centinaia di titoli, non trascurando nulla e facendo oggetto dello studio qualsiasi prodotto filmico contenesse un toro: cortometraggi, documentari, film amatoriali o domestici provenienti da archivi privati.

Abbiamo parlato di genere”, si può definire come tale solo in ragione quantitativa o il cosiddetto cinema taurino possiede peculiarità formali, narrative ed estetiche proprie? La tauromachia è un elemento drammatico talmente ricco di temi e suggestioni da risultare perfettamente funzionale alla messa in scena di generi più consolidati o ha caratteristiche tali da far sì che anche il cinema più “autoriale” vi si pieghi?

Possiamo ascrivere al genere un qualsiasi film che contenga un toro, lo stesso cinema anti-taurino, che può vantare titoli davvero interessanti, vi appartiene. A livello di scrittura, con le dovute eccezioni e variazioni sul tema, stiamo parlando di un film che abbia in sceneggiatura un protagonista che, allo scopo di uscire dalla propria condizione sociale, inizia a toreare aderendo a quei valori morali che il potere dominante – politico, economico, sociale, culturale – impone in quell’epoca. Dal punto di vista contenutistico la corrida è sempre strumentale: a un incontro sessuale, a una forma di riscatto, alla descrizione di un microcosmo sociale. Lo stesso toro, ricco di simbologia e feticismi, rappresenta di volta in volta il Cristo sacrificato, l’uomo, la donna, il denaro. Quanto all’aspetto formale ritornano storicamente alcune modalità note: dai campi lunghi al campo bravo all’utilizzo della slow-motion per i passaggi più coreografici. Non va dimenticato quanto il genere taurino sia stato una grande palestra per la regia: un toro non lo si può dirigere a piacimento, molti dei pionieri del cinema spagnolo imparavano a familiarizzare con la macchina da presa inseguendo la giusta inquadratura di un toro nella Plaza. Questo porta a un uso pressoché costante di immagini d’archivio, prassi inevitabile a meno che tu non sia Francesco Rosi e decida di seguire Miguelin per un’intera temporada.

La macchina da presa entra nell’arena la prima volta nel 1896, si può dire che i Lumière inviino immediatamente i loro operatori a documentare la fiesta, era del resto consuetudine per i fratelli lionesi riempire i loro archivi di tutto quanto potesse risultare curioso, seducente o esotico per il pubblico. L’era del muto si chiude tre decenni dopo o poco più con ¡Viva Madrid, que es mi pueblo!” affresco monumentale diretto da Fernando Delgado, prodotto, interpretato e voluto dal matador Marcial Lalanda; nel mezzo un patrimonio in nitrato in gran parte perduto o dimenticato. Quali film tra i meno noti meriterebbero di essere riscoperti, rieditati, proposti?

In realtà il film di Delgado chiude solo idealmente l’epoca del muto che in Spagna proseguirà, affiancando le prime produzioni sonore, almeno fino al 1931. Un film che promuovo sempre volentieri è del 1926: “El patio de los naranjos”, di Guillermo Hernàndez Mir. Il suo recupero ha una storia affascinante: parte dei rulli sono stati ritrovati in una cantina, il rimanente è stato ricostruito con un minuzioso lavoro concertato dalla Filmoteca Española di Madrid in collaborazione con la Filmoteca di Andalucia partendo da fotogrammi isolati. Pur essendo una commedia di taglio classico è ricchissimo di riferimenti biblici e lo trovo di una bellezza, un’originalità, una naïveté incantevoli. Purtroppo, malgrado lo straordinario lavoro di salvaguardia non ha avuto la promozione che meritava, al contrario di “Viva Madrid que es mi Pueblo…!” di cui il ritrovamento messicano e la riedizione curata dalla Filmoteca Española di Madrid hanno avuto grande eco.

Nel suo libro mette a confronto le due versioni dell’epoca silent di Sangue e arena – la prima firmata dallo stesso Vicente Blasco Ibáñez nel ’17, la seconda diretta da Fred Niblo nel ’22 e di produzione statunitense – titolando il capitolo: Cine español versus españolada”, titolo che sembra contenere in sé già una critica, può in sintesi raccontarci le differenze più evidenti?

Non è in realtà un atteggiamento critico: la españolada, ovvero una lettura orientalista della società spagnola, esiste in numerose declinazioni. La cosa interessante è piuttosto il fatto che l’autore Blasco Ibañez collabori a entrambi i film: co-firmando il primo e partecipando nella veste di consulente al secondo. Un prodotto culturale è il risultato di una serie di negoziati che vengono fatti tra potere e creatività e si immagina rivolto a un modello specifico di pubblico: sarebbe impensabile un Juan Gallardo effemminato e dedito alla danza in un film spagnolo almeno quanto alcune simbologie prettamente cattoliche non direbbero nulla a un pubblico americano. Il cinema americano è puritano e in quanto tale incline a punire il peccato sessuale, nel cinema spagnolo torna costantemente la rappresentazione del superamento della classe sociale, materia completamente assente nell’America repubblicana ma centrale nella Spagna monarchica. Tutto questo si riflette benissimo nei testi cinematografici.

Francesco Rosi realizza nel ’64 Il momento della verità”, analisi durissima e impietosa della società spagnola le cui crudeltà e miserie si riflettono nell’arena. Nell’intervista rilasciata ad Antonio Lorca per El Pais lei definisce il film di Rosi come il film taurino per eccellenza”, può approfondire questa riflessione?

Non c’è alcuna pretesa di oggettività in questa affermazione: da italiana, comunista, femminista, gramsciana, cristiano-sociale io mi ci vedo perfettamente rappresentata a livello politico: quello che io penso è nel film di Francesco Rosi. Francesco Rosi fa una scelta estetica ben precisa: ne “Il momento della verità” è Miguelin il toro sacrificato dal capitale.

Cinque anni prima veniva presentato Los golfos”, secondo lungometraggio di Carlos Saura. Il regista già dai titoli di testa dichiara la sua totale adesione alla corrente neorealista di cui è un estimatore: nessuna concessione al folklore né tantomeno all’epica della corrida, i protagonisti si muovono vivendo di espedienti, le note di chitarra flamenca che accompagnano lo scorrere delle immagini non hanno nulla di decorativo, il riscatto sociale inseguito attraverso il toreo, nel finale, non arriva. I modelli cinematografici stanno cambiando. Sta cambiando parallelamente anche l’apparentemente immobile universo taurino o solo la lettura che se ne dà?

Sta cambiando, e molto, perché arriva il consumismo. Da un punto di vista popolare il torero diventa una stella pop; dal punto di vista sociale, antifranchista, significa centinaia di maletillas che partono lasciandoci la pelle inseguendo il sogno della ricchezza. Tutto questo si riflette nei film. Le due grandi prospettive: quella più affine al trionfo del “nuovo Franco” – e in questo senso i film del Cordobés sono emblematici – dove il percorso del torero ricalca perfettamente l’ascesa del dittatore; e quella critica, realista o neorealista, che comprende una lunga serie di titoli in cui a chiare lettere viene apertamente dichiarato che il coraggio di mettersi davanti a un toro conta poco o nulla: miserabile sei e miserabile rimani… o muori. Il franchismo ha sguazzato parecchio nel vendere la tauromachia come un miraggio quando invece, cronache dell’epoca alla mano, era una spaventosa emergenza sociale.

Oggi esiste un cinema taurino sommerso, visibile ai festival e parzialmente reperibile in rete ma lontano dalla distribuzione ufficiale, messo al bando in nome di una nuova sensibilità”: sembra deciso che la sensibilità di un aficionado sia da considerarsi vecchia” se non addirittura assente; non trova indicativo che l’ultimo film a tema reso fruibile su grande schermo anche oltre-confine, grazie anche all’incetta di premi Goya conquistati – mi riferisco a Blancanieves, di Pablo Berger – ci riporti in realtà al linguaggio di un cinema perduto?

È vero, il film è singolare e ben fatto, una delizia dal punto di vista tecnico. Nel 2008 c’è stata una grande crisi che ha colpito anche il mondo del cinema, in questi casi riaffiorano rigurgiti nostalgici i cui risultati sono i più diversi: Blancanieves corrisponde perfettamente a un piccolo mix tra inquietudine esistenziale ed estetica e la nostalgia che riguarda la grandeur del cinema, se ti fai sopraffare difficilmente ne uscirà qualcosa di buono, se lo usi come stimolo creativo fai Blancanieves e vinci 10 premi Goya.

Lungo tutto il ‘900 moltissimi artisti e intellettuali hanno sentito l’esigenza, attraverso la loro opera, di raccontare e difendere la fiesta brava, oggi sembra essere rimasto solo Pedro Almodòvar, capace di regalarcene una lettura personalissima senza rinunciare a nessuno degli ingredienti che caratterizzano il suo cinema a cominciare da erotismo e sessualità, i cui simboli in relazione alla tauromachia sono espressi in modo evidente in “Hable con Ella” dove il percorso di Benigno/Càmara ripropone, parallelamente alle vicende di Lydia/Flores, il tema della conquista dell’identità sessuale che si consuma nell’arena. Come valuta l’apporto del regista spagnolo al cinema e in un certo senso alla causataurina?

Il cinema taurino non deve avere un approccio di difesa o di condanna, il cinema continua a fare della tauromachia un uso di tipo strumentale, un uso estetico o contenutistico. Tutto e niente serve alla tauromachia se non ricordare che è di fatto una parte fondamentale della cultura ispanica, tangibile e innegabile; in questo senso difendere la tauromachia come fatto culturale è un dovere morale. Almodòvar ha sempre avuto la grande libertà di prendere gli elementi caratteristici del popolo spagnolo rovesciandone il punto di vista: l’ha fatto con la religione, l’identità sessuale, la musica popolare. Con “Matador” realizza qualcosa di estremo che oggi sarebbe impensabile, altrettanto provocatoriamente con “Hable con ella” ci offre l’esaltazione estetica di elementi fortemente impopolari o addirittura moralmente inaccettabili, da questo punto di vista le sue produzioni sono straordinarie.

Gli studios statunitensi hanno fatto un largo uso della tauromachia come soggetto per il cinema d’animazione, si può dire che ogni personaggio seriale dei cartoon abbia calcato l’arena, esiste qualcosa di simile nella filmografia ispanica ed europea?

Sì, quasi tutte le tradizioni nazionali hanno un prodotto di animazione, la differenza è una questione unicamente quantitativa; il cinema d’animazione in Spagna non è così potente né dominante quanto quello statunitense. Anche qui si riflettono comunque le identità culturali, esistono titoli degli anni ’40, rivolti a un pubblico infantile, in cui l’esaltazione della morte è quanto di più lontano si possa associare alle produzioni contemporanee.

La sensazione è che in qualche modo l’incontro tra toro e torero sfugga alle regole della cinematografia. Può davvero il mezzo cinematografico, con i suoi peculiari ritmi spazio-temporali, catturare una forma d’arte retta da una musicalità del tutto diversa o deve limitarsi esclusivamente a un approccio frammentario o di tipo documentaristico? Come si inscrive l’arena nel rettangolo cinematografico? Dove vanno a incrociarsi gli sguardi laddove toro e torero cessano di essere un corpo unico? In sostanza: qual è la formula magica per mettere in scena la lidia? Chi ci è riuscito meglio di chiunque altro?

Nessuno. La corrida, come qualsiasi forma d’arte filtrata da un obbiettivo, sarà sempre rappresentazione, qualcosa di altro e di diverso.

“El cine taurino español: una historia cultural”, di Silvia Caramella, Editorial Universidad de Sevilla, pp. 514

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