MADRID. Nell’epoca eroica della corrida, bastava la luce lunare. La manciata di giorni in cui il buio più nero veniva spezzato dal chiarore opalescente della luna rappresentava una specie di paradiso per ragazzini che sognavano di fuggire l’indigenza in una plaza de toros. Sono storie dure, di desideri e sogni da realizzare contro tutto e tutti, un’epopea romantica finita in innumerevoli romanzi e film. Cenciosi, quasi nudi, i corpi smagriti dalla fame, i piccoli aspiranti toreri aspettavano quelle notti incandescenti, saltavano via di soppiatto dalle baracche in cui vivevano per strisciare verso gli allevamenti di tori selvaggi e lì, sfidando i fucili delle guardie, tentavano di affrontare un animale. Era l’unico allenamento possibile per adolescenti privi di denaro o conoscenze che permettessero loro di essere ufficialmente invitati a farsi le ossa con qualche vacca selvaggia. L’alternativa estrema alla luna era lasciare tutto e andar via. Riunire quattro vestiti in un lenzuolo chiuso da un nodo attorno a un bastone per attraversare le terre aride di Castiglia, mare fiumi e montagne andalusi, i campi abbandonati di Extremadura: ovunque, in cerca di corridacce di paese dove animali vecchi, sgamati e giganteschi venivano liberati di fronte a giovani disposti a morire. Li chiamavano maletillas. Perché un fagottino era quel che li rendeva riconoscibili: la maletilla che si portavano appresso, lo straccio che snodavano, svuotavano e infine arrotolavano attorno al bastone per usarlo come panno con cui chiamare alla carica tori sognando il trionfo e trovando spesso la morte. Quanti finirono in ospedali anonimi senza che nessuno potesse neppure riconoscerli è difficile dirlo. Una cosa sola è certa. Proprio quando il più famoso dei maletillas, Manuel Benítez Pérez detto El Cordobés, raggiunse un successo sconcertante col suo fascino da Beatle dell’arena, una dopo l’altra le città di Spagna cominciarono a istituire vere e proprie scuole. Scuole taurine aperte a tutti: ai diseredati, ai senza nome, ai signorini e ai giovani figli di possidenti. Scuole in cui imparare l’arte, senza che l’unica alternativa fosse fra la notte e la strada.
Oggi, a quarant’anni da quella svolta epocale, tutto è cambiato e la più importante scuola taurina di Spagna rischia di chiudere. Non per assenza di giovani aspiranti toreri. Né per mancanza di istruttori. Semplicemente perché il nuovo sindaco di Madrid, Manuela Carmena, ha deciso di ritirare il finanziamento (poco più di 60.000 euro all’anno) a suo dire ingiustificabile per un’attività che ha a che vedere con il maltrattamento di animali. Ex giudice, esponente dela lista Ahora Madrid, emanazione locale di Podemos, Manuela Carmena non ha risposto al coro di critiche e alle richieste di chiarimenti. Lo hanno fatto per lei i suoi collaboratori ripetendo che il programma di Podemos non prevede finanziamenti a chi maltratti animali. “Vedete animali qui intorno?” mi dice Ivan Romero, trentanovenne dalla pelle olivastra chiamato da tutti “El Sevillano”. Mentre mi accompagna a visitare la scuola “Marcial Lalanda” (in onore del grande torero madrileno di inizio Novecento), Romero si presenta come l’aiutante dei maestri, quello pronto a correre ai ripari in giorni come oggi, quando i tre professori (tre ex toreri) sono assenti, tutti assieme a dibattere in sedi ufficiali del futuro della scuola. “Ma qui non si può chiudere mai. Ci sono io. C’è il custode. Ci sono altri volontari. La scuola deve restare aperta sette giorni su sette. Perché non si viene soltanto a imparare l’arte del toreo. Si viene per stare insieme, per conoscersi nel rispetto reciproco, per ricordare che lo studio a scuola è fondamentale, per crescere con l’idea che è necessario applicarsi in ogni cosa se si vuole riuscire, che si deve dare tutto quel che si ha dentro, spirito di sacrificio, dedizione, amicizia, generosità”.
Le regole delle scuole taurine sono più o meno le stesse ovunque. Qui però ogni cosa risuona diversamente. La “Marcial Lalanda” infatti riempie spazi che sono pieni di storia. El Batán è il nome di questa zona (omonima fermata metro a due passi) immersa nella quiete del grande parco Casa de Campo. Qui si combatté all’ultimo sangue per salvare Madrid dall’assalto delle truppe franchiste. Qui i famosi maletillas si incontravano, giunti da ogni parte di Spagna, per allenarsi e aspettare l’arrivo di impresari privi di scrupoli pronti a portarli al macello. Niente animali allora. Niente animali neppure adesso. L’allenamento principale di chi vuole farsi torero consiste in quello che potremmo chiamare “toreo da camera”: un ragazzo (o una ragazza – visto che le scuole non sono affatto maschili come molti pensano e di torere donne ce ne sono state eccome) imbraccia il panno per chiamare il toro alla carica e il toro è sostituito da un altro ragazzo che impugna grandi corna e mima la corsa dell’animale, mentre in altre occasioni si usa un finto muso di toro innestato su una sorta di carrello. “Quale maltrattamento, ammesso che l’arte del toreo debba essere qualificata così?” insiste El Sevillano. Mentre mi porta a vedere la biblioteca, le sale dove esperti universitari, veterinari e vecchi toreri vengono a spiegare come funziona la psiche del toro, a insegnare il sangue dell’antica bestia per come si è modificato a seconda degli allevamenti di Spagna e tutto quel che è necessario sapere per conoscere l’animale, le sue reazioni, e il modo di prevederle – ossia quella che è la vera arte del torero –, mentre mi accompagna nelle stanze del custode dove sono disposti tutti i ferri del mestiere, nella piccola plaza de toros dove ci si allena, nelle costruzioni di lamiera dove si eseguono certi passi, mentre mi porta ovunque, in luoghi che sembrano fuori dal tempo, El Sevillano ogni tanto ripete quel che pagano i ragazzi: venti euro al mese, per cinque ore al giorno, esclusi sabato e domenica in cui di ore se ne fanno “soltanto” tre. “Ha mai sentito qualcosa del genere per altre occupazioni pomeridiane? Qui si salvano i ragazzi dalla strada”. Tra gli alunni che in questo sabato si allenano (di ogni età fra i sei e i diciotto anni), ce n’è uno particolarmente sotto pressione. Si chiama Carlos Ochoa, ha diciassette anni e domani esordirà in quella che Hemingway ribattezzò la “Scala della corrida”: la plaza di Madrid, Las Ventas. Ochoa non vuole parlare. Mi dice solo che domani ci rivedremo fuori dalla Porta Grande (l’uscita trionfale riservata ai più grandi successi) o all’ospedale. Sta pulendo i panni con cui scenderà nell’arena. È un lavoro che qui ognuno fa da sé. Non ci sono inservienti per chi vuole diventare torero. Ascolta musica. È chiuso in un suo mutismo di paura, eccitazione, adrenalina. Quando, il giorno dopo, lo vedrò uscire in trionfo portato in spalla dagli amici nel vestito di luci che brilla di oro al sole del mezzogiorno, ricorderò piuttosto altre parole del Sevillano, apparentemente incongrue rispetto all’esaltazione torera del momento: “Pochissimi escono toreri da questa scuola. Ma si commette un errore a pensare solo a essi, come fossero il pregio della Marcial Lalanda. Il grande pregio di questa scuola sta in tutti i ragazzi che vengono a crescere e che magari non sfideranno mai neppure un toro in vita loro. Quel che importa infatti è il toro che abbiamo dentro. Qui si impara a diventare uomini”.