Quattro minuti con Joaquin Vidal
Plaza de toros de las Ventas, Madrid. Posto numero 17, fila 6, linea 10. Un uomo seduto sotto la pioggia, solitario; una mantella verde scuro lo ricopre totalmente lasciando fuori il viso e una mano che regge un ampio ombrello. Lo sguardo è fermo sul ruedo. Sta pensando. Scriverà il prossimo articolo che rimarrà nella storia del giornalismo taurino. Dalla tragedia tauromachica che si sta compiendo durante il diluvio nascerà una storia. Sarà una storia irripetibile perché fermerà un attimo di vita, quella di un torero, di un toro e di un sognatore esigente. Mi riferisco a Joaquin Vidal (Santander 1935 – Madrid 2002), ritenuto dagli aficionados e dai periodistas che si occupano di cronache taurine un maestro della scrittura giornalistica, sia sul piano della qualità stilistica sia sul piano della competenza e del mestiere che ha messo in atto sin dalla fondazione del giornale El País, nel maggio del 1976, per cui scrisse migliaia di articoli raccolti nel libro Crónicas taurinas pubblicato nel 2002 da Aguilar, Madrid. Scrive di lui il giornalista Antonio Lorca in un pezzo comparso su El País qualche anno dopo la morte:
“Amava prendere il caffè, solo, ristretto e freddo tenendo una Ducados fra le dita. Metteva sempre i tori sul tavolo: parlava, ascoltava, ma le sue idee erano ferme, persino radicali a volte, perché soprattutto difendeva l’autenticità della corrida dal declino della modernità. Osservava le cose, la gente, l’arte de lidiar toros con quel suo modo così profondo che poteva apparire puntiglioso. Ma forse era solo un uomo un po’ riservato e molto riflessivo. Era un giornalista di razza, ossessionato dall’esattezza della cronaca, amante della notte che passava sveglio per perfezionare e correggere le sue scritture prima di affidarle alla stampa. Era un critico che ha infranto gli schemi tradizionali del giornalismo, adottando una straordinaria padronanza della lingua e un formidabile umorismo”.
Propongo qui di seguito un articolo di Vidal pubblicato su El País il 20 marzo del 1987. La traduzione è mia, spero di non far troppo torto alla scrittura del maestro:
La música estaba en la calle
I taurinos dicono che i toreri cantino quando muovono ad arte la muleta e colpiscono con maestrìa. Lo dicevano dei toreri di ieri e lo diranno di tutti i toreri fino al compimento dei secoli, anche se si tratta dei figli di papà-torero-famoso e anche se nessuno li ha sentiti mai cantare perché è come se avessero un bullone arrugginito dentro l’orecchio, dato che il loro modo di torear non fa pensare alla musica.
La musica veniva dalla strada. Il silenzio abbaziale del centenario coso veniva spezzato solo dalla musica delle bande che, accompagnando le comisiones falleras, interpretavano El chocolatero. Il giorno di San José le strade di Valencia erano un gran trambusto di homes, dones y xiquets, fumo di frittura di bunyols e di polvere da sparo; tutto era pieno: piene le chiese, piena l’arena. C’era chi nominava el Guerra, chi el Gallo, anche se non aveva mai assistito alle loro performance classiche. Le faenas de Litri erano un’immensa confusione: novillitos feriti e ribelli inseguivano il torero continuamente in tutte le direzioni facendogli perdere la muleta e il controllo della situazione al punto da costringerlo a guardare il tendido e a buttarsi in ginocchio, a terra. Camino vinceva la sorte col suo colpo dritto sferrato assestando bene la mano, nel modo ortodosso, con il suo pico, con il suo mestiere di novillero avisado. Se avesse avuto un altro cognome non avrebbe cantato, non avrebbe detto nulla. Si alternarono poi due figli di toreri e il figlio del sindaco, ma la situazione dava l’impressione che la cosa fosse al contrario: i figli del torero sembravano i figli del sindaco e il figlio del sindaco sembrava un torero. Le veroniche compiute con gusto, i movimenti con la muleta eseguiti con accenti cadenzati erano del figlio del sindaco, Alberto Martínez, anche se i novillos gli davano cornate all’ascella, come il sobrero che gli diede una cornata sotto la giacchetta e dovettero uscire tutte le cuadrillas per immobilizzare l’aggressore e liberare il torero.
Il pubblico gridava olé, si suppone, per il movimento delle labbra che si restringevano e si allargavano agli angoli della bocca, perché in effetti non si sentiva niente. La mascletà era a quel tempo alla sua massima espressione: le esplosioni intensificavano il loro rimbombo nell’imbuto del coso, perforavano le orecchie, scuotevano la gradinata, facevano tremare i corpi degli aficionados le cui vertebre sembravano doversi staccare da un momento all’altro. Sembrava davvero un terribile scenario di guerra e di tenebre, quell’assordante mascletà. Nel momento in cui il frastuono cessò di colpo, si sentì un “…è!”, ultima eco di un olé, e un tizio che raccontava al suo vicino: “Oh… e non ho potuto scoparmela!”.
Fra le opere di Joaquin Vidal ricordiamo La Feria de la apertura (1975), El toreo la grandeza (1987), Cuarenta añosdespués. Temporada taurina (1987).