Morte di un eroe

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EDITORS NOTE: Graphic content / Spanish matador Ivan Fandino (C) is assisted after being impaled by a Baltasar Iban bull during a bullfight at the Corrida des Fetes on June 17, 2017 in Aire sur Adour, southwestern France. Spanish matador Ivan Fandino died after being impaled by a Baltasar Iban bull during a bullfight in Aire sur Adour, southwestern France, during the Corrida des Fetes. / AFP PHOTO / IROZ GAIZKA

“Fate in fretta ché sto morendo”. Ha bisbigliato così, Iván Fandiño, ai compagni che lo trasportavano nell’infermeria della plaza de toros di Aire-Sur-l’Adour, sudovest francese. La maschera di dolore e un’immagine straziante, la classica “Pietà” che il pubblico delle corride conosce bene quando il corpo del torero perde peso tra le braccia di chi tenta disperatamente di salvarlo. È stato il corno destro di un toro chiamato Provechito, dell’allevamento mitico Baltasar Ibán a uccidere Fandiño, affondando nel fianco e perforando fegato, rene e polmone, mentre il torero si produceva in un movimento chiamato quite con cui si cerca di portar via l’animale da chi si trova in pericolo. Un paradosso, all’apparenza. Ma la tauromachia da sempre è questo: sfida a se stessi e alla sorte. E la sorte, a volte posata sulle corna dell’animale simbolo di questa cerimonia greco-romana, non perdona. Era un torero coraggioso, austero, laconico, Ivan Fandiño, nato a Orduña, Paesi Baschi, nel 1980. Nessuna tradizione taurina familiare alle spalle, era stato preso dalla cosiddetta “febbre dei tori” fin da ragazzino e per riuscire a farsi strada in un mondo chiuso e spesso respingente aveva scelto la via più difficile, quella delle corridacce di paese dove si sfidano animali a volte impossibili. Era diventato così, dopo un lungo apprendistato, il torero delle “corride dure”, uno di quei pochi che sono disposti a confrontarsi con i tori degli allevamenti più selvaggi, generalmente rifiutati dai toreri star. Nel 2014 aveva raggiunto l’apice del successo a Madrid uccidendo il suo animale dopo aver gettato via il panno con cui lo si strega nell’ultimo drammatico “momento della verità”. Poi aveva tentato il grande gesto, l’anno dopo, in una domenica delle Palme in cui l’arena di Madrid fece il tutto esaurito per seguirlo mentre si confrontava da solo con sei tori di sei allevamenti fra i più duri di Spagna e Portogallo. Non era riuscito a trionfare, Fandiño, ma l’altezza della sfida era rimasta impressa negli occhi degli aficionados. Chi era presente non ha dimenticato la sua fierezza anche nella sconfitta. Forse, del resto, il torero quel giorno cambiò assieme all’uomo che stava diventando padre e che poi, per la bambina che gli nasceva, non era più riuscito a tornare quello di prima. Nei tempi più critici per un rito moderno (la corrida formalizzata nella maniera in cui la conosciamo risale a metà Settecento) che affonda le sue radici nei tempi più antichi, fra Creta e i riti mitraici, un’altra morte nell’arena a soli undici mesi dalla fine di Victor Barrio a Teruel, rimette in questione i grandi temi circa l’esistenza stessa di uno spettacolo tragico per molti superato. Se i più acerrimi antagonisti oggi festeggiano (la rete è già inondata di entusiastiche espressioni di giubilo), è necessario ricordare che non è la morte del torero a concedere sopravvivenza al toro. Il toro muore comunque, come qualsiasi animale destinato a finir carne da tavola. Non nel macello, in questo caso, ma nell’arena stessa, ucciso dal torero che segue. La grazia, il toro da combattimento può conquistarsela soltanto con la grande corrida, quando il pubblico chiede l’indulto a gran voce pur di spingere di nuovo l’animale negli allevamenti dove possa farsi stallone, toro riproduttore. Ma le questioni che si aprono ora con una morte in terra francese sono altre. Perché in questi ultimi anni è sempre più la Francia, la Francia del sud e pirenaica, a sostenere, custodire, difendere la tradizione tauromachica. Mentre Barcellona ha bandito le corride (più che altro in nome di una lotta politica indipendentista contro i simboli dell’hispanidad, fra cui appunto la corrida che in Spagna è chiamata “festa nazionale”), molti spagnoli attraversano il confine pur di assistere a quella che Hemingway non smetteva di chiamare “tragedia” per distinguerla da forme di sport con cui molti la confondono. Spettacolo effimero come quello del teatro, ma simile piuttosto al teatro antico, perché cerimonia e rito più che show, la corrida in Francia è divulgata in librerie specializzate. Mentre in Spagna, dove la sua esistenza sembrava indiscutibile fino a pochi anni fa, è ora sempre più bersaglio di attacchi feroci. La morte di un torero come Fandiño sulla sabbia francese è destinata a riaccendere le polemiche. Oggi, però, resta solo lo sguardo attonito del torero morente, del suo corpo svanito, prima di perdere definitivamente vita sull’ambulanza che correva verso l’ospedale di Mont de Marsan. Restano solo gli ultimi tweet con cui anche questo torero fuori dal tempo cercava di comunicare i suoi traguardi e i suoi pensieri spesso costretti nel silenzio del suo sguardo guerriero. Uno dei più impressionanti suona così: “A volte non c’è una prossima occasione o una seconda opportunità. A volte è adesso o mai più”.

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