La corrida mi è indifferente. Mi è indifferente la sua etnologia, la noiosa ricerca di radici che dovrebbero affondare in un passato ancestrale. Mi è indifferente il suo coté estetico, perché barocco, kitsch, le sue invenzioni non vanno mai molto lontano. Mi è praticamente indifferente la questione etica, o il suo essere un allevamento di metafore, il suo proporsi come trappola identitaria per chi pensa municipale e regionale. Sono indifferente alla sua storia e alla sua geografia: se fosse nata in Svizzera nel 1968 per me sarebbe uguale. Quello che invece m’interessa è il pubblico, perché toro e torero sono il padre, ma il pubblico, l’arena circolare e carnale, è la madre della corrida. Quello che vorrei capire è perché oggi, non ieri, non tre secoli fa, ma oggi, la gente va a vedere un uomo vestito da un pasticcere siciliano mentre cerca di ingannare e uccidere un bestione inferocito. Oggi, che c’è altro da fare e da pensare, oggi, che l’umanità si ordina docilmente in modelli, gruppi e nicchie ecologiche omogenee, come fa quasi sempre. Ma non nell’arena, dove si trova di tutto: donne, uomini, giovani, vecchi, poveri, ricchi, destra, sinistra, analfabeti, intellettuali, atei, credenti, locali, globali, nord, sud, pastis, facebook, folklore, postmoderno. Chi va nell’arena ci va per trovare qualcosa che manca là fuori. Non è Barthes e un sistema di segni, o Hemingway e una voglia di vita, non è Lawrence e l’ebbrezza voyeuristica o Segalen e il suo esotismo essenziale. Chi ci va, ci va con Cormac McCarthy, verso la morte dello spazio e la fine dei tempi.