Il pomeriggio del giorno più triste, quando la città si svuota, i pasos non escono più dalle chiese e le famiglie si riuniscono a mangiare e celebrare la resurrezione, arriva immediatamente una nuova speranza. La festa deve continuare. La festa infinita non dura una settimana soltanto. Deve eternare quel gesto che abbiamo vissuto allo sfinimento e trasformarlo. L’uscita del paso viene allora sostituita dall’uscita del sacro toro. Suonano i clarini, ancora almendras e gin tonic, si attende come sempre. Si attende la reincarnazione che dà il via a nuove settimane di vita. Trionfa ancora ciò che è momentaneo, unico, effimero. Ma a Sevilla solo ciò che è effimero resta per sempre.
CORRIDA DI PASQUA: REINCARNAZIONE
Ma non si può aspettare un altro anno. Un anno è troppo lungo. Se la Vergine amatissima deve essere rinchiusa. Se suo figlio deve tornare nel buio delle chiese a vivere un’eterna Via Crucis. E se alle candele è affidato il compito di custodirli. Se ogni cosa non può che continuare a essere come deve essere, restano però altre vie. E così, il pomeriggio di domenica, dopo pranzo, mentre i bambini continuano a giocare, tutti quelli che non la smettono di avere a cuore la propria immortalità scendono in strada. È una via privilegiata, percorribile nelle privilegiate città di Spagna dove si celebra più a lungo il giorno di Resurrecciòn – Madrid e Sevilla, su tutte. L’itinerario, a Sevilla, potrebbe ricalcare i percorsi compiuti in questi giorni da alcune hermandades. Si scende verso calle Adriano, si getta un’occhiata tra le porte semiaperte della Cappella del Baratillo, poi ci s’infila nella Bodega San José, o al Bar Taquilla, o da Pedro Romero. Una coppa larga e tonda di ghiaccio e l’alcol che si vuole, due chiacchiere, saluti. Per sciamare su verso il fiume. Sfiorare la statua di Curro Romero. Ritrovarsi tra i rivenditori di cuscini, impermeabili, puros e pipas, le grida scomposte, i sussurri, la bolgia. Odore di stallatico. Minaccia di pioggia. Il cielo che si fa più cupo. Ma se è tutto il giorno che piove? No, non può ricominciare proprio adesso, non può. Ognuno il suo ingresso, programmi di mano in mano, scalette affollate. Sembra la festa a cui tutti, da giorni, dovevano confluire. Ma mica è per tutti. Sì, di là, di là, signorina. Ehi voi, no, è questa la direzione. Mi scusi il tendido 10 è qui? Grazie, se ci fa un po’ di spazio. E gli impermeabili che coprono ginocchia, gli ombrelli che coprono la vista, e la pioggerellina che si fa più fitta e l’orologio in cima che segna le 18 e 30, e proprio quando scocca la mezzora, con la puntualità che in Spagna è riservata solo alla celebrazione più sacra, un diluvio mostruoso si abbatte sul centro, il cuore di Sevilla. Risa, bestemmie, occhi storti, stralunati, bocche che s’increspano nei goccioloni, tutti accucciati e un grido che sale, prima lento e timido, poi sempre più forte e deciso. Battito di mani. Due battiti leggeri e due forti; due leggeri e due forti; due leggeri e due forti. “Fuera, fuera, fuera”. Fuori dove? Fuori chi? Quasi grandina. Poi, all’improvviso, così come è arrivata, la pioggia se ne va, il cielo torna bianco, più luminoso. Oltre l’ultimo cerchio concentrico s’intravede l’orrore del grattacielo in costruzione dalle parti della Cartuja, di là del fiume, un mastodontico altare profano che imbarazza tutti i sivigliani, il dominio di una banca nello sfacelo finanziario europeo. Si chiudono gli ombrelli, rivoli d’acqua colano giù come torrenti. Bicchieri, sigarette, e fuori pipas e puros. Clarini. Suono di clarini. Eccoci, sì, perché “el tiempo no lo impide”. Si comincia. Sfilano gli uomini, giù, sulla terra di albero, con i loro vestiti scintillanti e i mantelli colorati a festa per l’occasione. È una sfilata trionfale, un paseillo che apre definitivamente la festa e che chiama a una nuova resurrezione, una ancora, ancora una. Perché è impossibile aspettare un anno intero. Il rito deve continuare. In qualche modo deve continuare. La morte deve trasformarsi ancora.
E allora, di nuovo, attesa. Attesa. Questa condizione umana che gli spagnoli esaltano. Ovunque. In qualsiasi situazione. E con regalità nelle situazioni più importanti. L’attesa è il centro della Semana Santa. Attendere durante il travaglio del parto, all’uscita delle chiese; attendere l’arrivo del paso alla svolta che si è sognata per mesi, che sia l’Arco del Postigo o la Capilla del Baratillo o tutti i mille piccoli posti segreti eletti tra le passioni per cui aspettare una vita; attendere al rientro del paso nella chiesa in cui tornerà a morire. Attendere, attendere ovunque. A un edicola, mentre chi vi è davanti si dilunga in chiacchiere, al bar di fronte a caffè bollenti, tanto bollenti che non si freddino troppo in fretta e vi costringano a aspettare; attendere in fila alla freiduria, la friggitoria, il giorno di festa in cui il pesce fritto è d’ordinanza; attendere; attendere. Attesa. Una specie di silenzio cala nel freddo del temporale passato. Ci stringiamo nelle giacche, calziamo i cappelli, chiudiamo sciarpe attorno al collo. E aspettiamo. La porta si apre. Brusio. Attesa. Nulla, nulla. Ancora nulla. Ancora attesa. Poi qualcosa come un buio improvviso: il buio che si spacca e le corna che saltano su, il corpo nero scintillante che sembra sprizzare vita, la vita di un’improvvisa rinascita, eccolo, balza su, corre, a testa alta, fiero, veloce, agile, corre per la pista mentre panni rosa e gialli ondeggiano da dietro le barriere e tra la gente passano commenti, parole, borbottii. Si ferma, si guarda da una parte e dall’altra. Tiene la testa alta e sembra dire “venite a prendermi, su, uscite dalle vostre tane, fatevi avanti, io sono la vita e io sono la morte”. Dietro le tavole di legno dipinto per l’occasione, scivola un corpo brillante, il passo sciolto, il panno rosa e giallo che si distende fra la braccia. Tiene gli occhi verso il centro della pista. L’animale si volta e lo guarda. Per qualche secondo si guardano e provano a conoscersi. L’uomo, il costalero, che è venuto a dare vita e morte al suo dio. E il dio che è lì, ora. Al centro dell’arena. Cristo morente è il toro. Il toro è una Vergine.
Vergine arriva il toro all’arena. Vergine di amore, di conoscenze, di riti. Imparerà tutto insieme. Non porterà al collo i cinque smeraldi che Joselito El Gallo regalò alla Vergine della Macarena e che le traballano su petto ogni volta che si slancia in un passo più veloce o più lento a seconda della musica. Ma ballerà anche il toro, imparerà a ballare, a volteggiare, a rendere curvilinea una carica per natura rettilinea, a unirsi perfettamente a chi lo educa e lo spinge a crescere sulla via del dolore. La Dolorosa. Eccola qui, la Vergine del dolore. Il torero è il suo costalero, l’uomo venuto in vestiti di luce a dare luce e buio al suo paso. Che avanzi, che volteggi, che balli, questo paso uscito dall’oscurità dei corrales, le stalle in cui è stato rinchiuso dopo una vita lunga e piena di luce. Che segua i passi della musica quando la musica suona. Che tutto si realizzi per il sacrificio rituale. Così, quando, passate le sette, sulla Real Maestranza di Sevilla, un pasodoble inizia a suonare, mi pare di essere trasportato in un’altra dimensione. Sembra che dentro a quella musica che toro e torero ballano si nasconda una tristezza piena di amaro senso di vittoria, qualcosa di simile a “L’amarezza del trionfo” di cui scrisse il torero intellettuale di Siviglia per eccellenza, l’uomo che morì ucciso da un toro di nome Granadino, il commediografo, aviatore, calciofilo, amatore, il torero per cui García Lorca scrisse il canto celebre, scandito da versi come rintocchi: “Alle cinque della sera”: Ignacio Sanchez Mejias. Mi pare che l’amarezza del trionfo stia riempiendo l’arena mentre El Juli, il torero di Madrid nato fra i tori e cresciuto fra i tori e ancora pieno di voglia di tori e pieno della sacra ilusión torera, mentre lui, piccolo costalero, sta ricomponendo il quadro di rinascita vita e morte di tutta la settimana passata, nella più grande e epocale delle resurrezioni. Il suo primo toro fa di nome Habanero. Il suo secondo toro invece si chiama Tramposo. A entrambi capita quel che gli spagnoli dicono in un proverbio: “Impara più un toro in quindici minuti di corrida che un uomo in tutta la sua vita”. Perché è il cammino di dolore, redenzione e morte su cui ha compiuto la sua esistenza. La sua e quella dei suoi fratelli. Razza sacra e divina. Immacolati come Vergini, testardi nella loro ricognizione del dolore come Cristo, volteggiano in balli di luce per il tempo che è loro dato nel cammino di amaro trionfo. Eppoi trionfano assieme al loro costalero, che oggi è questo matador de toros capace ogni anno di trovare nuova voglia per scendere sotto il grande altare, a portare la sua croce. Habanero e Tramposo e tutti i loro fratelli, vergini e cristi, esplosi nella vita e infine restituiti alla morte: trascinati dai muli, nell’arrastre funerario, abbandonano l’arena per essere fatti a pezzi nella macelleria. L’incenso non brucia, in quelle stanze, ma forse la testa di Tramposo verrà impagliata perché vi si dedichino pensieri e raccoglimento nei tempi a venire. Nell’arena sacra però ora tutto questo non passa per la mente di nessuno. Il pubblico è in piedi. Si applaude il torero e il suo toro, il costalero e la sua madonna, il sacrificio della vita per ridare vita a tutti gli uomini in vita. “Salud“. Brindiamo. La temporada taurina è iniziata. La stagione delle resurrezioni avrà lunga vita.
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Le puntate precedenti:
1. Vigilia. Un venerdì qualsiasi nel nostro mondo
2. Domingo de Ramos. El sol es el mejor torero
3. Martedì Santo. Il cuore dei Misteri
5. Resurrecciòn. I costaleros di Achille
Le puntate seguenti:
7. Trasformazione. Il nazareno di Chaves Nogales