Mentre la Semana Santa diventa un ricordo (i video vengono preparati per l’uscita annuale a sancire una conclusiva morte), la feria prende il sopravvento e assieme al rito feriale anche un’idea di grandeur tutta sevillana. Con cosa ha a che fare? Con la storia secolare e il dominio del mondo perduto? Con un orgoglio tutto andaluso che tuttavia gli andalusi non di Sevilla condannano? Con una sfida eterna per essere sul tetto delle città più belle al mondo? Provincialismo e retorica s’intrecciano nel momento più delicato. La città sembra sospesa. La festa pare improvvisamente più lontana di quanto dovrebbe. E sono sempre i gesti a salvarla. I gesti effimeri. In una dimensione in cui – è noto – solo ciò che è effimero dura per sempre.
VERSO LA FERIA: SOGNANDO IL DOMINIO
“I giorni migliori della feria?” Alla barra della Campana, si ridacchia. La domanda del turista risveglia gli animi. Ride anche il più vecchio, un uomo lungo e un po’ curvò, i capelli brizzolati zuppi di brillantina, attraversati dai solchi del pettine in un’onda verso la nuca. “Che giorno, Pedro?” Sgomitano, si chiamano, fingono di chiedere aiuto a chi conosce l’inglese. Poi il più compito tira su la testa dal bancone e un po’ rubizzo, dice “tutti i giorni, tutti i giorni, chiaro. Non esiste classifica. Ogni giorno ha il suo”. La Campana è la pasticceria più bella, elegante, antica di Sevilla. Se è quasi vuota di domenica mattina, il motivo è tutto nel sole. Finalmente il sole sembra essersi ripreso tutti i suoi diritti. Non piove da due giorni. I giornali raccontano la storia dedicandogli lo spazio che meriterebbe un trattato di pace in medioriente. La lluvia a Sevilla non è pura e semplice maravilla – ripetono. Soprattutto se piove da mesi. Si scopre che marzo è stato il mese più piovoso di sempre e che finalmente tutto sta cambiando. Tanto che in questa piccola capitale del mondo si può ricominciare a guardare ogni cosa con serenità. Il Diario de Sevilla per esempio spiega il ritorno del sole portando a esempio la città che più potrebbe essere accostata – per bellezza e storia – a Sevilla: Roma. Se non fosse per il clima, infatti, forse solo Roma potrebbe ambire allo splendore sivigliano. E allora oggi i Sivigliani possono guardare con rispetto alla sfortuna meteorologica di Roma. In questo caso almeno per imparare qualcosa, visto che l’inverno è stato tanto grigio e umido. Leggo il pezzo in terza pagina ad alta voce e dietro il banco della Campana ridono: “Ricordo i tristi inverni romani di giornate corte e settimane intere di pioggerellina. E come questa città bifronte sembrava resuscitare e convertirsi in un’altra città quando arrivava la sua splendida primavera, la scalinata di piazza di Spagna si riempiva di fiori e mentre si procedeva verso un’estate fantasticamente calda, le terrazze si riempivano fino all’alba e il Tevere sembrava il Guadalquivir e Trastevere pareva Triana. Ecco, serve il sole per riscattarci dal grigio dei giorni passati”.
Me ne vado verso Triana, allora. I pasos sono stati smantellati in ogni chiesa e Vergini e Cristi sono tornati definitivamente quello che sono: morti pezzi di legno ricoperti di ori e tessuti, adagiati nelle loro cripte, nelle loro edicole, i loculi adibiti per chi giace in eterno. I vestiti delle Vergini sono spostati in teche preziose. Il manto della Macarena, riapparso dopo due anni di restauro che hanno riportato in vita i disegni in oro su fondo verde che furono l’opera di sartoria del celebre Juan Maria Rodrìguez Ojeda, è sotto chiave, protetto dall’umidità e da qualsiasi agente atmosferico che sia in balia delle stagioni. Fuori, invece, è proprio tutto questo. Il sole rimbalza sui tavolini metallici aperti in enormi distese su calle Betis, il Lungotevere di Triana. Passeggio dove Juncal, il protagonista di una strepitosa serie tv spagnola anni ’80, fa attraversare un cieco, in un balletto esilarante. Saluto, di là dal fiume, la Maestranza, proprio come faceva Juncal. Il bar Santa Ana non serve lumache, visto che la vera stagione arriva alla fine della feria e qui si è integerrimi. La piazzetta dietro la chiesa è affollata. In giro, piccoli poster raffigurano un ragazzetto sivigliano che pare più un piccolo eroe per teenager, uno sbarbatello amato dalle ragazzine, pronto a cantare su palchi ipermoderni per correre appresso al sogno di un Grammy. E invece è un torero. Le locandine lo presentano come “il futuro di Sevilla”. Lama de Góngora si chiama. Si tratta di un novillero, ossia di un torero che affronta ancora tori giovani, fra i tre e i quattro anni, e non è ancora diventato a pieno titolo matador de toros. A lui spetterà la vera e propria apertura, dopo la domenica pasquale, nella novillada di domani.
“Spero solo che non sia futuro come il futuro è quell’orribile pennacchio delle banche” ha masticato sprezzante un bagarino fuori della plaza de toros, qualche giorno fa. Indicava il grattacielo che ha rotto per sempre una certa magia sevillana, ha oscurato i campi che s’intravedevano dietro la fine della città, il verde e il giallo e il marrone sotto al cielo all’orizzonte, di là da Triana. “Me cago en Cajasol” ha ripetuto mostrando la bocca sdentata. Il fatto è che oggi, a metá strada verso la nuova esplosione di festa, nella domenica che è il perfetto spartiacque per avviarsi in una ripida discesa verso l’inizio della feria, ritualmente indicato nella seconda domenica dopo Pasqua, in questa domenica scintillante per i tori si deve ancora aspettare. Non è più in cartel la lunga preferia che animava di immensi programmi la stagione taurina di Sevilla. La crisi fa vittime. La tauromachia non le sfugge. E in più la crisi culturale e politica dello stesso mondo taurino, che lo capiscano o meno i sivigliani, arriva fin qui, fin nei luoghi in cui non si è mai potuto immaginare un mondo senza tori, nella città dove Rafaèl El Gallo, “il divino Calvo”, raccontava, al ritorno da Parigi: “pensate, lì non hanno tori. Chissà come fanno, di domenica”. Nonostante tanta sicurezza su un eternità fatta di tori allevati per combattere e uccidere, anche a Sevilla è arrivata l’onda lunga dell’abolizione barcellonese con tutto quel che si è portata dietro, in fatto di detriti politici e soprattutto culturali. Domenica scorsa una ventina di manifestanti gridavano davanti all’ingresso della Maestranza solgan contro la tauromachia, cosa mai vista prima in città. Numeri bassi ma espressione di un cambiamento drammatico. A cui forse si potrebbe rimediare con uno sguardo lungo, il più possibile lontano dalla miopia tipica del provincialismo taurino. A Sevilla, probabilmente, una mentalità che ci vorranno anni e anni perché possa farsi largo. “Giornalista taurino, lei?” mi hanno chiesto alla Maestranza. “Be’, non proprio giornalista taurino. Diciamo che, sì, amo i tori e scrivo di tori”. “Ma scrive su un giornale taurino o no?” “Eh, no, giornali taurini in Italia non esistono” “Non esistono? Be’, allora lei non può scrivere di tori”. Mi è parso inutile replicare che anche grandissimi giornalisti taurini spagnoli, gente che è nata fra i tori e di questo ha scritto per tutta la vita, anche loro, quando scrivevano per El Pais, El Mundo o ABC non scrivevano mica su giornali taurini. Me ne sono andato verso la Trastevere di Sevilla passando il ponte di San Telmo. La fabbrica di Tabacco, la Sevilla ricchissima e potentissima, che conquistava il mondo. Commerci di oro, argento, preziosi. Uomini e donne di ogni modo. Un viavai continuo. Secoli, ormai. Ma come un DNA, un sangue, un’eredità. Dev’essere per questo che, qualche giorno fa, mentre glorificavo la bellezza di questa città, il mio interlocutore, un giovane di qui neanche troppo sciovinista e certo ben poco appassionato di tori, mi ha detto: “Be’ ma anche tu vivi in una bella città, no? Roma è quasi bella come Sevilla. Eppoi c’è il Colosseo. Niente tori. Ma leoni”.
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Le puntate precedenti:
1. Vigilia. Un venerdì qualsiasi nel nostro mondo
2. Domingo de Ramos. El sol es el mejor torero
3. Martedì Santo. Il cuore dei Misteri
5. Resurrecciòn. I costaleros di Achille
6. Pasqua. La reincarnazione del toro
7. Pasquetta. Il nazareno di Chaves Nogales
Puntate seguenti: