Inseguendo il mito

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foto di Vicent Canelles

Questo articolo è apparso dopo il ritorno di JT a Jaén sul quotidiano il Foglio che ringraziamo

Circa due anni fa ricevetti un messaggio privato sul mio profilo Instagram: “Buonasera Francesca, sono un italiano insolito, grande fan del Maestro José Tomás, ho molto apprezzato il capitolo a lui dedicato nel suo libro Corpi speciali…”. L’autodefinirsi “insolito” già bastava a incuriosirmi, ma è stata la fotografia allegata al messaggio il vero asso nella manica. 

Prima di continuare mi è d’obbligo spiegare agli sfortunati a cui il nome José Tomás non dice nulla, di chi stiamo parlando, e lo farò citando me stessa: “Vi parlerò dunque di José Tomás, il torero leggendario, rivolgendo, a voi che leggete e vivete in questo secolo, un invito: se ancora non lo avete visto fate in modo di colmare questo vuoto, tanto più se siete avversi alla Fiesta. Una volta, una sola volta, mettete da parte le vostre convinzioni e disponete il vostro spirito con la stessa benevolenza che dimostrate al cospetto di un’opera d’arte, poiché ciò che vedrete, è pura e altissima espressione artistica.” Quando per caso mi ritrovai ad assistere a una sua corrida più di vent’anni fa a Valencia, del torero José Tomás non sapevo nulla. Ero arrivata nella città spagnola perché invitata a far parte della giuria di un festival cinematografico e per una settimana guardai solo film. Ma il penultimo giorno, passando davanti alla Plaza de toros, qualcosami spinse a entrare: il cartel affisso all’ingresso annunciava l’“ultima corrida de la temporada”. Come a significare o adesso o mai più. Sono entrata, e si può dire che non ne sia mai uscita.

Per diversi anni ho fatto su e giù con la Spagna a vedere corride, ho studiato le complicate leggi della Tauromachia, ho desiderato conoscere e tentato di capire quel mondo remoto e misterioso al quale ho dedicato un film dal titolo Sol y Sombra. Tutto questo non sarebbe mai accaduto se quel giorno, a Valencia, non avessi visto José Tomás, il più grande torero di Spagna. E senza dubbio, il più indecifrabile.

In ventisette anni di attività il suo mito è stato alimentato dallo stile inimitabile, dal coraggio dimostrato, dal talento, ma soprattutto dallo stesso JT. A cominciare dalle regole che sin dall’inizio ha dettato, prima fra tutte quella di non esistere. Al di fuori del ruedo dove si offre senza condizioni, Tomás non concede altro. Ha vietato le riprese televisive delle sue corride (in termini pubblicitari è una rinuncia costosissima) tranne tre minuti stabiliti per contratto. Impensabile intervistarlo e tantomeno incontrarlo in luoghi pubblici. Nel 2002, a ventisette anni e al culmine della carriera, annuncia il ritiro senza fornire alcuna spiegazione. Per cinque anni sparisce, nessuno sa cosa abbia fatto nel frattempo. Il torero che riempie le arene garantendo la continuità di un rito antico che deve combattere contro l’ineluttabilità della sua fine (invocata da buona parte della Spagna moderna e da gran parte del mondo), esce di scena lasciando aficionados e impresari nella disperazione. L’imprevedibilità delle sue azioni contribuisce a creare la leggenda, non si sa mai cosa aspettarsi da lui, ma lo si aspetta, sempre e comunque. Il colpo di teatro lo offre nel 2007, scegliendo la plaza di Barcellona, notoriamente la più antitaurina di Spagna, per la sua attesissima rentrée. Saranno in ventimila ad applaudirlo, Tomás li premierà offrendo loro una corrida spettacolare durante la quale riserverà la sorpresa di concedere la grazia a uno dei tre tori, la rarissima cerimonia dell’indulto (che avviene quando l’uomo riconosce la supremazia dell’animale e gli risparmia la vita fra gli applausi degli astanti). L’assenza dalle arene non solo non ha compromesso la sua arte ma l’ha, se possibile, sublimata, rendendo il suo stile sempre più peculiare, a cominciare dallo sconfinamento in quello che in Tauromachia viene definito “il territorio del toro”, il limite oltre il quale un torero è spacciato, e che Tomás oltrepassa regolarmente lasciandosi sfiorare da quel corpo immenso senza mai retrocedere, senza autorizzarsi un paso atrás. Si muove pochissimo, non lascia quasi tracce sulla sabbia, e più esibisce il suo corpo, più lo rende invisibile, in una continua oscillazione fra stile e audacia, fra genio e follia. La quantità impressionante di cicatrici sta a dimostrare quanto si esponga al pericolo. Diverse volte ha sfiorato la morte: la più clamorosa in Messico, nel 2010, dove fu incornato e lanciato ripetutamente in aria da Navegante, un toro di 473 chili. Arteria femorale perforata, emorragia inarrestabile. Sembra spacciato, gli viene data l’estrema unzione. Poi la corsa in ospedale e la provvidenziale trasfusione del sangue offerto da decine di messicani che gli salvano la vita. Ha trentacinque anni ma dopo un simile incidente sembra scontato il suo ritiro definitivo. E invece, ancora una volta, JT stupisce i suoi fans e torna a esibirsi dopo quindici mesi di estenuante riabilitazione. 

Se apparire e scomparire è la costante della sua carriera di matador de toros, l’attesa febbrile è la costante di chi lo insegue per le arene con la consapevolezza che dopo quella corrida potrebbe non essercene un’altra. Per quel che mi riguarda, dopo aver assistito a una cornada spaventosa alla Real Maestranza di Siviglia, decisi che sarebbe stata la mia ultima volta. Era il 2002, l’anno del suo ritiro dalle scene coincideva con il mio ritiro dalle arene. Era tempo di tornare alla mia vita di tutti i giorni. Non l’ho mai più rivisto. 

Fino al 12 giugno scorso.

Ma torniamo al misterioso messaggio dell’“insolito”aficionado italiano. La fotografia che mi aveva inviato mostrava un capote (il drappo fucsia e giallo utilizzato durante la prima parte della corrida) con dedica autografa di José Tomás, immagine che ha naturalmente risvegliato la mia curiosità (nonché la mia invidia). “Come hai fatto a procurartelo??” chiedo. Risposta: “Ho partecipato a un’asta benefica promossa dalla Croce Rossa per raccogliere fondi per l’emergenza Covid. José Tomás aveva messo a disposizione un suo capote e io ho vinto l’asta. Aspettavo con ansia la consegna ma qualche giorno dopo mi è arrivata una mail da parte di un club taurino nella quale mi veniva detto, in termini molto ossequiosi, che un oggetto così prezioso e così “tipico” era meglio che rimanesse in Spagna… si offrivano dunque di risarcirmi il doppio dell’importo versato se avessi rinunciato alla vincita. Risposi che poiché l’obiettivo dell’asta era benefico, avrei rinunciato al capote senza pretendere nulla. Saputo del mio gesto, Tomás mi aveva scritto tramite il suo chirurgo personale per dirmi che mi avrebbe spedito un suo capote a me dedicato, a titolo gratuito.” Dunque un italiano aveva ricevuto un dono dal più inarrivabile degli uomini. Mi è sembrato un aneddoto bellissimo. Non è consueto trovare qualcuno, in Italia, con cui condividere un simile argomento, più facile è scontrarsi con oppositori feroci, talvolta anche violenti (mi è successo di frequente), ci si sente parte di una setta segreta, ostracizzata e dileggiata. Come i fumatori. E così abbiamo cominciato a scriverci. Il dettaglio interessante è che di Andrea, oltre al nome e alla provenienza (Casarsa della Delizia, che ha dato i natali a Pasolini…) non sapevo altro: né volto, né età. Sul suo profilo Instagram non appaiono immagini né informazioni, ma poco importa. A me bastava sapere che nel mio Paese esisteva un estimatore di José Tomás il cui fanatismo superava di gran lunga il mio. Me ne ha dato prova inviandomi un’altra fotografia, con la seguente didascalia: uno scorcio del mio ufficio. Praticamente un piccolo museo personale dedicato a Tomás, con tanto di testa di toro e memorabilia varia. Sorprendente. Ma il vero dono è arrivato poco tempo dopo: “Mi farebbe piacere che il Maestro – lo chiama così- leggesse il tuo libro, se me lo permetti mi occupo della traduzione del testo e glielo faccio avere”. Il tramite per contattare Tomás è Rogelio, il suo fidato chirurgo (solo in Spagna esiste la specializzazione in chirurgia taurina), l’unico ad avere rapporti diretti con il torero, per evidenti ragioni… È lui che mi scrive dopo aver ricevuto il libro e la traduzione “… el Maestro tiene en su poder tu libro y me consta que lo ha leído con mucho interés…”. Il mio libro fra le mani del Maestro. Dios mio.

Ma le sorprese non finiscono qui. 

Alcuni mesi dopo ricevo un altro messaggio: è un articolo di El País che annuncia il ritorno di José Tomás dopo tre anni di assenza. La Reaparición (così viene definito la rentrée su ogni testata) avverrà a Jaen, in Andalusia, il 12 giugno. 

“Ci andrai?” mi chiede Andrea. “Magari…” rispondo dando per scontata l’impossibilità di un simile evento, vuoi per l’irreperibilità dei biglietti, vuoi per il costo esorbitante nel caso fossero disponibili (si parla di 2000 euro…), vuoi perché davvero non avevo considerato l’ipotesi. “Ci penso io” mi dice “non preoccuparti, ho due biglietti per te”. Faccio mente locale. Mi bastano dieci minuti. Vado da mio figlio Tano: “Ti va di venire in Spagna con me?” La risposta naturalmente è affermativa come quella che do ad Andrea poco dopo. Come avrei potuto dire di no?

E così, sotto il sole più caldo degli ultimi vent’anni (questo ventennale sta assumendo significati imperscrutabili), mi imbarco su un aereo insieme a mio figlio, il compagno di avventure ideale (è nostra consuetudine fare viaggi assurdi). 

Che bello ritrovare la mia Siviglia immutata, le solite vecchie insegne, i soliti vecchi bar trasudanti jamón e madonne, i vecchi signori con le camicie a scacchi che tracannano manzanilla, la consueta accoglienza generosa e disinteressata. Una città a cui devo molto e sulla quale ho spesso fantasticato di un’ipotetica e alternativa vita pigra. Nessuno come gli andalusi sa godersi la vita.

Andrea di cognome fa Colussi (come la madre di Pasolini e come la gran parte dei nativi di Casarsa). Suo padre è uno di quegli uomini per i quali si ricorre all’abusato termine di “genio italiano”, persone illuminate da un’intuizione sulla quale concentrano tutte le loro energie fino a renderla concreta. Quelli che si inventano una cosa, la cosa che mancava, e su di essa costruiscono industrie e benessere. Nel caso specifico, un macchinario destinato al lavaggio degli alimenti: un congegno che prima non esisteva e del quale oggi non si può fare a meno. Andrea lavora nell’azienda del padre e sgobba dalla mattina alla sera. Andare in Spagna a vedere corride è la sua fuga dalla realtà.

“Vi va domani di venire nella finca di un mio amico torero? Siamo invitati a pranzo”. Ci va, certo che ci va.

L’amico torero si chiama Alberto Gomez Moreno. Il suo nome non mi dice molto, non seguo le crónicas taurinas da tempo e Alberto è piuttosto giovane, ma in questa parabola di coincidenze e incroci inaspettati anche lui mi riserverà una sorpresa che molto ha a che fare con il destino. L’arrivo alla finca è la dimostrazione plastica del concetto di accoglienza di cui ho accennato. “Sentiti come a casa tua” non è una frase di circostanza per gli andalusi. Non esistono convenevoli, timidi approcci, buone maniere affettate: si comincia sempre con qualcosa da bere, tanto per scaldare gli animi, e ci si mette a tavola sapendo che il pranzo si tramuterà in cena, e che da quel tavolo imbandito di ogni grazia ci si allontanerà dopo non meno di quattro ore. Ogni cosa intorno a noi denuncia la professione del nostro ospite: capotes appesi a un trespolo, fotografie, trajes de luces (il tradizionale abito da torero) esposti in vetrina: “Quello azzurro l’ho messo il giorno della mia alternativa” dice Alberto a Tano, incuriosito (l’alternativa è la cerimonia di passaggio dal ruolo di torero a quello di matador de toros). All’esterno, una piccola plaza de toros privata, dove Alberto si allena e spesso tiene corsi di tauromachia o capeas (corride di simulazione con vitelli). Sono belle anche vuote le plazas, gli edifici circolari incutono soggezione, sollevano emozioni antiche e profondissime.  È sufficiente affacciarmi su questa piccola arena disabitata e farmi accecare dal giallo intenso della sabbia per volare col pensiero a ciò che mi aspetta fra quarantotto ore. La Reaparición… 

Ne parlano tutti i giornali spagnoli di questo evento imminente che si dimostra eccezionale a partire dalla vendita dei biglietti, andati subito esauriti nelle ore successive all’annuncio. L’accaparramento a un asiento, un posto qualsiasi, sole o ombra poco importa, ha fatto lievitare i costi a cifre inverosimili (fino a 4000 euro…). A Jaen è impossibile trovare una stanza: tutti in città, antitaurini compresi, benedicono l’arrivo del Maestro che restituirà loro un po’ di ossigeno dopo due anni di restrizioni. Io intanto penso che oggi JT ha quasi quarantasette anni, e che quando lo vidi l’ultima volta ne aveva venti di meno. Un piccolo tarlo che la mia indole romantica tenta invano di scacciare nonostante la famosa chioma corvina del torero di Galapagar sia striata ormai di grigio, e il suo viso sempre più scavato mi commuove.

Ora le strade si dividono: Andrea e i suoi amici friulani se ne vanno a Jaen a prendere possesso della finca noleggiata per l’occasione. Tano ed io torniamo a Siviglia. Ci accompagna Alberto Gomez Moreno e approfitto del passaggio per subissarlo di domande riguardo alla corrida che ci aspetta, voglio sapere il suo parere professionale su Tomás sperando che la confidenza, corroborata da litri di manzanilla e tinto de verano, abbia potuto incrinare la corazza di regole e precetti che ogni torero degno di questo nome indossa con fierezza: primo fra tutti non commentare el valor indiscutibile di un grande matador. Pur evocando sottilmente una velata critica nei confronti del mito costruito attorno alla figura di Tomás, Alberto si guarda bene dal mettere in discussione la grandezza del suo illustre collega. Intimamente gliene sono grata.

Meno uno. Falta un día. Trascorriamo la vigilia a Cordova, ipnotizzati dalla bellezza della Mezquita. Il caldo non dà tregua, l’ondata di calore è anomala anche per gli stessi andalusi, abituati a temperature insopportabili. Il termometro segna 48°, è un clima da miraggi, da allucinazioni. “È tutto eccezionale in questo viaggio” commenta mio figlio mentre guida attraverso paesaggi incontaminati sulla strada che da Cordova ci conduce a Jaen. Percorriamo la Ruta verde del aceite, la strada dell’olio di oliva. Chilometri e chilometri di ulivi senza scorgere la sagoma di un’abitazione, la presenza di un insediamento umano. Mai vista una roba del genere. Arriviamo alla finca per l’ora di pranzo e ci ritroviamo, di nuovo, attorno a un tavolo a mangiare paella e bere birra. C’è anche Alberto Gomez, che si siede accanto a me. Gli racconto che nel 2000 girai un film sui toreri. Immagino possa conoscere alcuni di quelli che avevano partecipato alle riprese e già che ci sono gli mostro alcune sequenze di Sol y Sombra dallo schermo del mio computer… C’è un passaggio nel quale sono ripresi dei giovani allievi della scuola di tauromachia di Siviglia. Vedo Alberto agitarsi, è la scuola dove ha imparato i primi rudimenti, riconosce il suo maestro, i suoi compagni di corso… “Ma quello sono io!” dice stupefatto. Stop. Faccio scorrere indietro le immagini. Si vede un ragazzino intento a spingere un carrellino sul quale è stata fissata una testa di toro in cartapesta, contro un compagno che lo attende sventolando la cappa: stanno simulando quello che in gergo viene definito el toreo de salon, l’allenamento senza il toro. Ora, fra tutti i toreri viventi in Andalusia, io mi sono ritrovata accanto a un ex sedicenne che inconsapevolmente aveva fatto parte del mio film… 

Guardo l’ora, manca poco. Sono emozionata come prima di salire su un palcoscenico, mi batte il cuore, cambio tre volte il mio abbigliamento mentre cerco di interpretare le ragioni del mio stato d’animo: eccitazione? Paura di essere delusa? Com’è che si dice? Mai rivedere i propri miti…

Arriviamo a Jaen due ore prima, la fila infinita di automobili dirette alla plaza ci dà la misura dell’evento. In prossimità dell’arena Andrea distribuisce i biglietti e noto con immensa riconoscenza che i posti destinati a me e a mio figlio sono nel settore Sombra. Tano sta fotografando il pannello digitale che indica la temperatura: 51°! Penso a José Tomás, che in questo momento dovrebbe trovarsi nella sua camera d’albergo impegnato nel complicatissimo rituale della vestizione. Lo immagino inguainato nei pantaloni attillati che è riuscito a infilare grazie all’aiuto del suo mozo de espadas e dei quali misurerà l’elasticità eseguendo alcuni piegamenti sulle gambe. Poi, in religioso silenzio, gli indumenti che compongono il più assurdo e paradossale vestimento della storia del costume, saranno indossati uno ad uno, fino alla montera, il copricapo sul quale verrà fissato il codino finto, simbolo del matador. Una guaina impermeabile sotto 51 gradi, con la prospettiva di affrontare quattro tori. Sì, perché la Reaparición del più grande torero di Spagna, avverrà in solitaria. Prerogativa che fa storcere il naso ai suoi detrattori, che lo accusano di evitare il confronto con altri toreri, ed esultare gli estimatori che assisteranno ad un epico one man show.

Ci siamo. Si entra. Tendido 2.

Credo sia impossibile descrivere l’atmosfera che aleggia in una plaza de toros. Nessuno ne sarebbe capace, nessuno ne è stato capace, nemmeno Hemingway.

Si prova un malessere, uno straniamento generato da un’infinità di sollecitazioni che il raziocinio, in conflitto con l’istinto, prima accetta, poi rifiuta, di nuovo accoglie e poi condanna e intanto ti inchioda agli scalini roventi degli spalti. Ti guardi intorno e vedi la folla, senti la sua eccitazione palpitare ancor prima che il matador, scortato dalla cuadrilla, faccia il suo ingresso. Si tratta davvero di un rito collettivo, come mi disse una volta un amico torero: “Si è sotto l’incanto di un’energia generata dal toro, dal torero e dal pubblico”.

È tutto uno sventagliare di abanicos, di ventagli, in questa plaza arroventata di sole e di emozione. Puntuale, alle 19.30 ha inizio il paseillo, la sfilata di tutti partecipanti alla corrida accompagnati dal pasodoble di trombe e timpani. Quando finalmente appare JT la musica viene coperta dall’ovazione di diecimila spettatori. I miei occhi sono puntati su di lui, dalla mia postazione lo vedo nitidamente avanzare verso il Presidente, mi inquieta la sua magrezza e l’incedere appena claudicante dovuto alle conseguenze delle tante ferite, ma il carisma è immutato e l’eleganza dei suoi passi è la stessa di sempre. Sono qui, mi dico, ed è bellissimo. Viene annunciato il primo toro, il suo nome è Maliciosoe pesa 537 chilogrammi. Si spalanca il toril, la lidia ha inizio. Tomás lancia in aria la montera che cade come deve cadere, vale a dire non rovesciata (presagio di “mala suerte”) e riceve il toro con una serie di veronicas a piedi giunti. Malgrado il suo nome, il toro non dimostra carattere ed è palpabile l’assenza di complicità fra l’uomo e l’animale, ingrediente fondamentale affinché si accenda quel mistero evocato dal grande torero El Gallo:“Torear es tener un misterio que decir, y decirlo”. Tomás insiste con movimenti tanto perfetti quanto inefficaci allo scopo, e il pubblico comincia a rumoreggiare, ma è nella parte finale, al tercio de muleta, che le aspettative, talmente alte da risultare inevitabilmente frustrate, si scontrano con la delusione di una stoccata finale che tarda a compiersi come Dio comanda, come Tomás comanda. Con il secondo toro l’equilibrio si ristabilisce (malgrado dagli spalti sia partito un irrispettoso “Me aburro!” Mi annoio!) il matador incanta con una serie di memorabili naturales e pases de pecho (lasciandosi sfiorare dal corpo dal toro, la sua specialità) ma il problema resta nella tempra degli animali che mancano di carattere e non si lasciano trascinare nella faena. C’è un modo di dire, fra gli appassionati di corride, che mai come oggi risulta veritiero: “No hay fiesta sin toros”, a significare che la razza dei “toros bravos” si distingue anche per casta e carattere. Li ha scelti Tomás i tori, unico torero a cui viene concesso, e questo non gioca in suo favore. Gliene restano due per riaccendere l’entusiasmo di un pubblico che pretende di assistere a un prodigio. È forse questa la chiave di tutto: l’egoista esigenza di non essere delusi da un uomo simbolo, che non può e non deve fallire. E improvvisamente, mentre lo guardo al centro dell’arena combattere prima di tutto contro se stesso, capisco che vent’anni sono passati anche per me, giacché non solo perdono, ma amo la sua improvvisa fallibilità. Quanto deve essere difficile convivere con la propria leggenda, doverla sostenere sapendo che il pubblico per il quale si fa tanta fatica è la bestia più feroce. 

Con il penultimo toro JT non delude offrendo un tercio de muleta eccezionale che gli vale il premio di una oreja, un orecchio, ma non tutti sventolano i fazzoletti bianchi, e a battere le mani non sono in diecimila. Il gesto che compie Tomás lanciando il trofeo a terra anziché brandirlo verso il cielo significa tante, troppe cose. 

L’incantesimo si è rotto nonostante il gran finale: con l’ultimo toro Tomás accorcia la distanza oltremisura e onora la sua leggenda esibendo dei naturales che levano il fiato. Stavolta il premio ricevuto non viene contestato. Il meglio è arrivato alla fine. Ora gli spettatori si aspettano un “risarcimento”, un bis offerto con un quinto toro di riserva. Potrebbe riconquistarli in pochi minuti JT, ma non lo fa, mai stato un ruffiano. El samurai rimanda la sua rivincita al 7 agosto, ad Alicante, di nuovo in solitaria contro quattro tori, e quel giorno assisteremo al momento della verità. 

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