Il Minotauro di Dürrenmatt

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Tutti conoscono il mito che racconta quell’essere fantastico dal corpo umano e la testa taurina chiamato Minotauro. Unione di forza selvaggia e tensione all’intelligenza e al sentimento, unione di correttezza animale e inganno umano, dunque supremamente: fragilità e solitudine dell’animale mortale.

I fatti raccontati dagli antichi per spiegare nascita e morte di questo essere sono semplici. Pasifae, moglie di Minosse, re di Cnosso, s’innamora di un toro bianco che suo marito ha rifiutato di sacrificare a Poseidone attirandosi e attirando sulla moglie la sventura. Incapace di contenersi, Pasifae implora Dedalo, inventore ateniese a corte, il quale costruisce per lei una vacca di legno concava. La regina può così inginocchiarvisi dentro per farsi penetrare dal toro. Il frutto dell’amplesso è il Minotauro che ha nel nome il toro, suo padre naturale, e Minosse, il padre che decide di allevarlo e amarlo. 

Orrendamente tradito, Minosse infatti si cura dell’essere e chiede a Dedalo di costruire per lui un luogo che possa proteggerlo e che possa a sua volta proteggere gli umani dalla sua forza incontenibile, una prigione che non sembri tale, un intrico in cui sia possibile vivere un’apparente libertà. Dedalo progetta allora il Labirinto dove il Minotauro cresce finché un ateniese di nome Teseo viene a Creta per ucciderlo e interrompere una strage. Ogni anno infatti al Minotauro Atene è costretta a inviare sette ragazzi e sette ragazze per compensare un danno compiuto contro Minosse. Forte e subdolo, Teseo seduce Arianna, figlia di Minosse, che lo introduce nel labirinto e soprattutto gli offre la famosa chiave per uscirne, il filo di lana. È così che Teseo uccide il Minotauro, esce dal labirinto, fugge da Creta con Arianna per poi abbandonarla a Naxos dove la ragazza verrà consolata dal dio dell’ebbrezza, Dinoniso, pronto a prenderla con sé e renderla immortale.

Il mito racconta l’intreccio di umanità e animalità. Uno dei temi principali nella riflessione dei nostri tempi. Su di esso infinite chiavi di lettura sono state proposte, infinite riflessioni. Letture della più varia natura hanno spinto a liberare lo spirito critico. Una delle più belle è quella di uno scrittore svizzero del Novecento. Un piccolo libriccino che tutti dovrebbero conservare nelle loro biblioteche.

Scrittore di teatro, pittore, autore di racconti indimenticabili, Friederich Dürrenmatt è uno di quei lettori, cultori, amanti del mito greco e della sapienza antica, capaci di mostrarne l’eterna vitalità. Fra le perle che ci ha lasciato, spicca una sorta di breve ballata in cui la prosa è intimamente poetica e chi ascolta il tintinnare delle frasi se ne lascia cullare quasi fossero versi in cui il suono ha un ruolo decisivo. S’intitola Il minotauro e basterebbe questo racconto per indagare il mito del figlio di Pasifae senza dover ricorrere a commenti e disquisizioni critiche.

La geniale mossa di Dürrenmatt sta tutta nel ricoprire le pareti del labirinto di specchi. La vita del Minotauro all’interno dell’intrico mentale creato da Dedalo “per proteggere gli uomini da quell’essere e l’essere dagli uomini” si consuma dunque nella progressiva domanda che gli specchi suscitano. Chi è che si riflette in essi? Qual è l’immagine che restituiscono? E soprattutto quale immagine di immagini, visto che gli specchi riflettono all’infinito anche l’immagine prodotta dagli specchi stessi? 

All’inizio tutto sembra relativamente semplice. Finché nel labirinto il Minotauro è solo, gli specchi producono un’infinità di esseri che sembrano muoversi agli ordini del Minotauro. Tutto ciò che il figlio di Pasifae vede attorno a sé spinge l’essere privo di logos a quella minima consapevolezza che l’animale può possedere. “Gli parve di essere come un capo, anzi di più, come un dio, se avesse saputo cos’è un dio”. Una “gioia infantile” da cui scaturisce “una ritmica danza”.

La gioia di quella solitudine che appare all’uomo-toro come una supremazia su altri esseri propensi a obbedirgli ciecamente viene però interrotta quando il Minotauro vede riflettersi fra gli specchi e fra i Minotauri l’immagine di una ragazza. Qualcosa attraversa le viscere dell’essere: uno strano desiderio che sconfina in ciò che chiamiamo amore. Al tempo stesso, la ragazza, spaurita, vede e teme tutto questo, perché il semplice animale potrebbe essere per lei in qualche modo comprensibile e sopportabile, ma “insopportabile era il farsi uomo di quel toro”. 

Del resto, l’intreccio impossibile di uomo e toro genere conseguenze drammatiche. L’uomo che è nel Minotauro si lancia in una danza di accoppiamento, ma il toro che è nel Minotauro impedisce che l’amore sia vitale. L’amplesso porta morte, anche se l’uomo-toro “non poteva sapere nemmeno che l’uccideva, perché non sapeva cos’era vita e cosa morte. In lui non c’era altro che incontenibile felicità fusa con incontenibile piacere”. Durante il sonno che prende il Minotauro come ogni essere umano dopo il coito, arrivano dal cielo gli avvoltoi attirati dal sangue, mentre l’essere sogna la ragazza, e comincia a vivere l’infelicità a cui è stato consegnato dal parto di Pasifae: la condanna “a non essere dio, né uomo, né animale, bensì solo minotauro, colpevole e incolpevole insieme”.

Qui, in questa frase perfetta, sta tutto il senso del mito. Nonché ciò che di prezioso il mito ci invita a considerare oggi e sempre, nel nostro essere animali diversi da tutti gli altri animali e tuttavia diversi anche dagli dèi che noi stessi abbiamo proiettato in un aldilà di perfezione e immortalità.

Ma la storia del figlio di Pasifae e del toro bianco non finisce così. Nel labirinto, fra le schiere dei ragazzi inviati da Atene ne appare uno che sembra volersi avvicinare all’essere. Il Minotauro crede allora di poter giocare con lui e gli si avvicina a sua volta “pieno di buona volontà, anche se non disponeva di un concetto per questo sentimento”. Una danza giocosa ha inizio, ma per nulla equilibrata. Il ragazzo, infatti, non condivide la stessa buona volontà, pur disponendo del concetto, e cerca di uccidere il Minotauro che si ritrova sconcertato nel dolore della spada che gli ha trafitto il petto.

Ecco la nuova mossa geniale di Dürrenmatt. Il dolore che cambia chi lo prova, trasforma, e fa crescere. Il dolore che prova l’essere che è corpo di uomo e testa di toro. Un dolore che si trasforma in furia e si scatena prima contro tutti gli altri ragazzi che il Minotauro trova nel labirinto (perché di fronte a loro “ebbe l’impressione che l’intera umanità – se ne avesse avuto il concetto – si avventasse su di lui per annientarlo”) eppoi contro le immagini tutte, dunque contro gli specchi, che, ridotti in frantumi, manifestano la propria irrealtà.

È adesso che l’essere si scopre solo, scopre che un solo Minotauro esiste e che egli è “l’unico, l’escluso e rinchiuso insieme, che il labirinto c’era per causa sua, e questo solo perché era stato messo al mondo perché l’esistenza d’uno come lui non era consentita dal confine posto fra animale e uomo e fra uomo e dei, affinché il mondo conservi il suo ordine e non divenga labirinto per ricadere nel caos da cui era scaturito”.

Niente di più perfetto. Tutto è qui, in questa frase magica.

Quel che segue viene da sé. Arrivato a questo punto il Minotauro sogna il linguaggio che non ha. Poi si trova di fronte alla ragazza che porta il filo di lana e a un altro essere che sembra uguale a lui e che gli dà per un attimo l’illusione di non essere il solo Minotauro esistente. La gioia della possibile amicizia dura poco. Quell’essere coperto di pelli e di maschere è l’uomo che mente e finge per ucciderlo, ossia Teseo. E la vita unica dell’unico essere che lacera i confini fra umano e animale umano ha termine.

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