Il ciclone e il pirata

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OLIVENZA (Extremadura). Aveva detto “tornerò a mettermi davanti alle corna di un toro” e poco fa era lì, di fronte a un animale nato quattro anni fa a Medina Sidonia, allevamento Nuňez del Cuvillo. Aveva detto “sarà una serata trionfale” e il crepuscolo caldo e dolce della primavera di Extremadura l’ha spinto all’uscita che si concede al grande matador: sulle spalle dei toreri che in lui hanno ritrovato il rispetto dell’arte. A Olivenza stasera è stato il trionfo di un uomo valoroso e serio, una di quelle “tardes” che fanno la storia della tauromachia. Sul ritorno nell’arena di Juan José Padilla a soli cinque mesi da una cornata terribile a Saragozza, si diceva di tutto da giorni. Ma l’unica cosa che si sapeva davvero era il “vestito di luci” (così si chiama il “traje” torero) che avrebbe indossato: cucito dal sarto Justo Algaba nei colori verde speranza e oro. Per il resto, come avrebbe toreato Padilla era difficile immaginarlo. Lo hanno sempre chiamato “il Ciclone di Jerez” dalla cittadina in cui nacque 38 anni fa e per la sua esuberanza, le sue trovate spettacolari e la sua voglia di affrontare sempre i tori più difficili. Ma sarebbe rimasto davvero “Ciclone” dopo che il 7 ottobre scorso a Saragozza un toro di nome Marqués, dell’allevamento di Ana Romero, un toro del sangue antico e duro dei temibili Santa Coloma, gli aveva strappato metà faccia?

È stata la ferita più impressionante degli ultimi anni. E diversamente dal famoso corno immortalato nella bocca di Julio Aparicio nel 2010, stavolta le conseguenze sono state tragiche. Padilla ha perso – molto probabilmente per sempre – l’occhio e la mobilità del lato sinistro del viso. Ma la sua lezione è stata straordinaria. Un’umiltà fuori dal comune che ha commosso tutto il mondo taurino e anche chi verso i tori non ha dimestichezza né vere passioni. “Non porto rancore al toro” ha detto nella prima intervista dal letto d’ospedale. “Nella vita il toro mi ha dato tutto. La mia unica felicità è trovarmi di fronte alle sue corna”. Oggi hanno preso a chiamarlo “Pirata”. E non solo per la benda nera che gli copre l’occhio ma per una disponibilità a dare tutto che evoca spirito di avventurieri da romanzo e celebra nella sua massima espressione l’antica arte di sfidare se stessi di fronte a un toro selvaggio.

Ieri, quando la stagione taurina ha riaperto i battenti su questa bella cittadina accanto al confine con il Portogallo, erano in pochi quelli che parlavano di Barcellona e della Catalogna dove da quest’anno è scattata la proibizione. Si aspettava solo di vedere Padilla pronto a sfilare sull’arena della plaza costruita nel 1861. Il bianco ritinteggiato per l’occasione brillava nel sole assieme all’ocra e al rosso: i colori delle arene del sud. Spagnoli e portoghesi brindavano e mangiavano gamberetti. La festa del paese esplodeva. A centinaia, giovani e vecchi passeggiavano sulle due piazze contigue e lunghe piastrellate di mattonelle dipinte in blu, giallo e verde. Poi i tori sono scesi nell’arena e l’emozione è esplosa. Non c’era un posto libero sugli spalti e l’applauso che ha accolto il “Ciclone di Jerez” è stato liberatorio. Rispetto e gratitudine da parte di una regione in cui la passione taurina è travolgente. Riconoscenza per un uomo che ha esaltato i valori più puri della cosiddetta toreria. Mentre si faceva girare il toro attorno, muovendo il capo in maniera innaturale pur di vedere sempre l’animale, seguendone i movimenti, il silenzio era gonfio. E quando la musica ha iniziato a suonare, l’emozione si è trasformata in quello che Garcia Lorca chiamava il “duende”, lo spirito trasfiguratore che possiede i grandi artisti, generalmente gitani, che siano musicisti o toreri. E’ stato come il suono silenzioso cantato da José Bergamin, altro poeta del Novecento spagnolo. Il suono della campagna che si riapre, della festa che scoppia ovunque, della sfida alle paure più grandi e soprattutto alla paura di se stessi. Poi è venuto il momento della verità, e l’emozione si è sciolta nel fragore. “I tori non finiranno mai” ha detto il vecchio addetto alla porta della plaza salutandomi. “Ci vediamo il prossimo anno”. Padilla era già lontano, acclamato dalle grida di un pubblico ebbro.

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