Il 24 ottobre del 1960, un francese di nome Jean Cau, si chiuse in un piccolo albergo di Siviglia per iniziare a scrivere di tori. Era nato a Bram, dalle parti di Carcassonne, trentacinque anni prima, e aveva attraversato il mondo intellettuale parigino come una stella sfuggente. Dal 1946, per dieci anni, segretario personale di Jean Paul Sartre, giornalista e intellettuale partito da posizioni di estrema sinistra, aveva già cominciato a fare di se stesso un polemista sempre pronto alla provocazione e al paradosso. Ciò che lo aveva spinto a Siviglia, tuttavia, non era politica né ambizione. Solo quella passione sfrenata che lo aveva penetrato come stille di acqua per anni e quando aveva trovato il suo corso era diventato un fiume morboso, un flusso infettivo, un verme per nulla solitario: l’afición ai tori. L’ossessione era diventata tale che all’inizio dell’anno Jean Cau aveva lasciato tutto, decidendo di seguire l’intera stagione taurina di quello che allora era il matador più interessante fra i giovani talenti di classe e massima verità, in ascesa continua e ormai vicino alla consacrazione definitiva: Jaime Ostos.
Poche furono le corride che Jean Cau mancò nella temporada di Ostos, seguendo lui e la sua cuadrilla in viaggi rocamboleschi, contrattazioni, ferite, trionfi, delusioni, speranze, sfide e incontri con toreri allora celeberrimi, continua goliardia, amicizie ferree, inimicizie, delusioni, rancori, rivincite, momenti di sublime felicità e tutto quel che capita in mesi di vita per le strade di Spagna e Francia rincorrendo un’idea e sfuggendo la morte. Quando l’autunno chiuse la stagione dei tori, Jean Cau, con l’animo fradicio, se ne andò a Siviglia a cercare l’ultimo tepore e mentre i sivigliani, come ogni anno, già cominciavano a immaginare la prossima Semana Santa e i tori che sarebbero arrivati con la Feria de Abril, si impose di raccontare tutto quel che aveva vissuto. Ne uscì un libro storico che Cau consegnò neppure due mesi dopo, in preda a un entusiasmo febbrile, intitolato semplicemente Toro e finalmente ripubblicato in Italia in uno di quei rari gesti con cui l’editoria (ovviamente non mainstream) ha il coraggio di tentare la divulgazione di opere taurine. La vecchia traduzione di Elisa Morpurgo non aveva bisogno del resto di alcuna revisione. Con prefazione di Carlos D’Ercole, Iduna Edizioni, pp. 283, euro 20.
I nuovi appassionati italiani che si affannano per recuperare edizioni ormai esaurite di Max David, José Bergamín, Lapierre & Collins, costretti addirittura a faticare per Morte nel pomeriggio e Un’estate pericolosa, non perdano l’occasione. Troveranno in questo libro così tante cose da uscirne sopraffatti. Toro infatti non è un’opera facile definire. Come la forma moderna di tauromachia, la corrida, così resistente a ogni più coerente tentativo di definizione, il libro di Cau si lancia a percorrere così tante strade che tentare di recuperarne un centro pare impresa impossibile. In effetti il centro c’è eccome. È Jaime Ostos e la sua cuadrilla cui il libro è dedicato in un gesto di amicizia virile che è forse il vero guscio attorno a cui Cau ha cucito le storie del suo torero. Se infatti noi lettori appassionati ci perdiamo, come tante volte ci è già capitato di fare, in cronache di corride dimenticate di cui tuttavia sentiamo ancora una specie di resistenza alla fine come capita a un’arte estremamente effimera e proprio per questo eterna come la tauromachia, è l’umanità di una stagione ciò che ci risucchia in un altrove non contemplato.
Seguiamo gli inizi di Paco Camino, giovane andaluso di famiglia poverissima che con ingenua freschezza confessa tutti i suoi sogni. Seguiamo ancora la presunta rivalità fra Dominguín e Ordóñez, ascoltando Cau che si scatena contro Hemingway e ne rivela tutta l’ignoranza in materia taurina secondo quel che ne avrebbe raccontato lo stesso Dominguín (sono gli stessi anni di Un’estate pericolosa). Ci lasciamo portare attraverso mondi che abbiamo letterariamente conosciuto con molti resoconti diversi: la fatica a farsi toreri e gli inganni somministrati a torerillos spesso condannati a morte in corridacce di paese; la corruzione della stampa taurina; i conflitti di interesse fra i detentori del potere; i crimini degli allevatori e degli impresari. Ci immergiamo in quartieri di città che oggi hanno cambiato completamente volto e in cui pure sentiamo ancora vibrare le storie antiche: Madrid soprattutto. Guidiamo su strade polverose che oggi sono asfaltate. E dimentichiamo che sono passati quasi sessant’anni e ci sembra di poterci rilassare e poter godere di un mondo in cui i toreri erano universalmente rispettati e nessuno apriva bocca senza conoscere ciò di cui parlava.
Ma sono i sogni della letteratura. Dai quali siamo costretti a risvegliarci. Ciò che resta, dunque, è altro. È quel respiro che diventa profondo in pagine indimenticabili. Quando Jean Cau cerca di raccontare il vitalismo spagnolo per esempio (“Non gaiezza ma violento amore per la vita. L’allegria dello spagnolo ha sempre un fondo doloroso”). Quando prova a capire come funzioni il tempo in Spagna (“Ogni attimo in questo Paese è un’eternità”). Quando ci racconta di una di quelle notti sivigliane in cui il flamenco a un tratto prende il sopravvento e ogni coordinata spaziotemporale è sovvertita (“Il tempo è annullato. Bisogna che la notte si prolunghi e disponga i cuori e le anime all’oblio di ogni cosa e alla nascita del canto”). Quando ci mostra il concetto di verità del meridione (“Chi li dicesse bugiardi non ha capito nulla degli andalusi in particolare e dei meridionali in generale. Il meridionale (Ulisse o Do Giovanni) è il meno bugiardo degli uomini. Dice sempre la verità. Ma (e qui sta il suo dramma e il suo segreto) le sue sincerità sempre totali, partorite dalla passione, improvvise come doni, sono successive”). O finisce per spiegarci che sì la corrida ha inizio ogni giorno all’ora esatta in cui è prevista e forse è l’unico caso di puntualità in Spagna, ma è inspiegabile come si arrivi a tanta organizzazione, vista la disorganizzazione che c’è dietro. Del resto, tutto crollerebbe se vi si volesse introdurre un “ordine prussiano”: “Questo bordello infatti ha un ordine segreto. Volete una prova? Spostate un portacenere e tutti i pensionanti e i clienti se ne accorgeranno e ne parleranno per ore e ore”.