GRAZIA SOTTO PRESSIONE

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Scrittore, traduttore, critico, Giulio D’Antona ci racconta il suo primo incontro con la tauromachia moderna.

di Giulio D’Antona

«Esiste uno strano collegamento tra tutto ciò che accade», scriveva Kurt Vonnegut. «Che non trova sfogo se non nella convinzione che tutto sia predestinato. Per questo andiamo a inseguire il destino, piuttosto che semplicemente lasciarlo scorrere». 

Non so se Vonnegut abbia mai seguito una corrida, non mi sono informato e non è così importante. Io non ne avevo mai vista una fino a qualche settimana fa. 

Non sono un aficionado, e non credo che lo diventerò: la morte del toro, quella celebrazione della fine gloriosa che compie ogni sfida, resta un evento troppo doloroso per me; difficile da guardare, sarà perché mi immedesimo. Capisco che quel dolore sia fondamentale, parte del significato del rituale, e probabilmente ha ragione chi mi dice che se mi trovassi nella situazione di assistere a una corrida dal vivo, allora cambierei idea. O, per lo meno, mitigherei il dolore, lo vedrei attraverso l’esaltazione dell’atmosfera di grandezza che certamente mi esploderebbe intorno. Non escludo che possa accadere, ma per ora mi considero un semplice osservatore esterno. Non un oppositore alla ritualità, ma nemmeno un suo strenuo difensore. 

Penso che se la sorte del toro è destinata a compiersi nell’arena, così quella dei toreri che hanno deciso di correrle incontro e non lasciarla semplicemente scorrere sia a essa complementare. E così, va tutto bene.

Ho guardato una corrida in video, su YouTube, tutti e sei i tori. Stavo facendo ricerche per scrivere di Ernest Hemingway e mi serviva per capire meglio alcuni parallelismi tra l’aspirazione eroica dello scrittore e le imprese che l’avevano ispirata. Caccia, pesca, guerra, tori. Lo strano collegamento attraverso il quale tutto accade. Vivo tra i laghi e i boschi, capisco la caccia; ho imparato a pescare trote da bambino; ho giocato alla guerra, anche se non ci riesco più. I tori, per me, si limitavano a un vecchio filmino in super8 raccolto da mio nonno durante un viaggio in Spagna negli anni Sessanta, così ho deciso di guardare almeno qualche brandello di corrida, tanto per farmi un’idea. Da quel momento, non riesco a smettere di pensare al primo torero. 

Era un ragazzo biondo, con quella che, di primo acchito vedendolo prepararsi nel burladero, ho mentalmente definito una “faccia da schiaffi”. Poi, mentre i commentatori approfondivano questioni tecniche che tuttora non ho i mezzi per comprendere, ho visto quella faccia da schiaffi cambiare momentaneamente, rivolgere lo sguardo lontano dalle telecamere e dalle mani tese del pubblico, e distendersi. La sua espressione si è addolcita e gli ha restituito lineamenti umani, più che gradevoli, gentili. Così si è alleggerito anche il mio giudizio d’impatto. 

Si chiamava Javier Cortés – ho poi scoperto che è nato lo stesso giorno di mia moglie a Getafe, che nel 2019 ha avuto un brutto incontro con il corno del toro Golfo che gli ha quasi portato via l’occhio destro e che gli piace il tweed. Incidente a parte, avremmo almeno un paio di argomenti dei quali chiacchierare. 

C’era qualcosa nell’espressività di Cortés che me lo rendeva difficile da sopportare. Sembrava non riuscisse a restare aggrappato alla gentilezza, che continuava ad andare e venire dal suo volto per non più di qualche secondo. Eppure, non smettevo di guardare. Sapevo a cosa sarei andato incontro, e non smettevo di guardare. 

Quando ha fatto il suo ingresso nell’arena, peones al seguito e capote alla mano, lo odiavo. Mi sembrava strafottente, non soltanto nei confronti del toro Hechicero che gli girava intorno agitato, ma anche del resto del gruppo di uomini, del picador e del suo cavallo, del pubblico, della presidenta. È ovvio, lo sapevo anche guardando per la prima volta, che si trattava di un atteggiamento rituale, preparato, sempre uguale e finalizzato allo spettacolo. Ma forse il mio essere prevenuto nei confronti dell’uomo che prima o poi avrebbe ucciso, anche se in quei momenti inziali non faceva che studiare e provocare i movimenti del toro, mi stava sussurrando l’indignazione che dovevo provare. 

A quel punto un po’ guardavo e un po’ prendevo appunti. Ascoltavo i commentatori cogliendo poche parole alla volta, non mi sforzavo di entrare nell’azione. Però ogni volta che Cortés veniva inquadrato, catturava la mia attenzione. La sua mimica facciale scattante, che poi avrei scoperto essere dovuta in parte anche alle conseguenze dell’infortunio che aveva subito, mi sembrava una versione esagerata e scomposta del teatro in maschera. Era al contempo innaturale e perversa. Non ce n’era bisogno. 

Arrivati al momento in cui i cavalli escono di scena – il toro era stato colpito tre volte dalla picca – avevo smesso di prendere appunti. La mia antipatia per Cortés aveva preso il sopravvento e lo guardavo girellare a petto in fuori per l’arena, sorridendo a chissà chi tra gli spalti e sollevando il mento tronfio. Eravamo nemici, con l’ardore di quegli avversari che non riescono a starsi lontani. Pensavo a chi mi diceva che dal vivo è tutta un’altra cosa: «Certo», mi ripetevo, «Dal vivo potrei insultarlo». Non era nemmeno per il fatto di trovarmi dalla parte del toro: ero ben cosciente di cosa stavo guardando e di quale fosse lo scopo ultimo di tutta quella messinscena. Benché provassi pena per il povero animale che già sanguinava parecchio dalla groppa e che i banderilleros stavano ornando di colori del tutto fuori luogo, non era davvero del destino del toro che mi preoccupavo, ma del mondo che aveva messo quel biondastro sorridente al centro dell’attenzione. 

Era il torero, lo avrei capito dopo, e quello era il suo ruolo.

Una volta un amico di etnia Maori, eccellente rugbista samoano trapiantato in Italia a giocare per L’Aquila, mi ha spiegato il perché della mascherata delle danze di guerra prima delle partite. «Ci sono gli avversari», mi ha detto. «E c’è la paura. Non è contro gli avversari che si fanno le facce brutte, ma contro la paura». 

E così, quella che mi era sempre sembrata una lieve mancanza di rispetto nei confronti di una squadra di pari in un gioco noto per essere popolato da gentiluomini, ha assunto un senso. Linguacce e ringhi non erano rivolti agli uomini contro gli uomini, ma al terrore di perdere. Se questo è valido per un rugbista che, dopotutto, rischia giusto qualche contusione procurata da un individuo grosso più o meno quanto lui, non posso immaginare cosa debba essere per un tipetto atletico ma di dimensioni contenute che vaga per l’arena armato di poco o niente provocando le cariche di un toro di cinque o seicento chili. 

«La paura crede a una cosa soltanto», ha scritto Stephen King. «Di poter essere battuta da chi finge di non averne». E il mio nemico Cortés, con la sua posa sinuosa e i suoi movimenti felini, era molto bravo a fingere. 

Lo osservavo: le spalle indietro e i fianchi in fuori lo facevano sembrare un apostrofo, tutto solo nel suo vestito luccicante a spiccare sulla terra gialla, macchiata qui e là de sangue del toro. Il suo momento stava per arrivare e lui si preparava. Mentre i peones si rimpallavano Hechicero da una parte all’altra, lo sguardo di Cortés, appoggiato a una balaustra come se passasse di lì per caso, ballava dagli spalti all’arena. Quando guardava il pubblico era il torero che era stato fin lì, che lanciava occhiate ammiccanti e sorrisi di sbieco, ma quando si rivolgeva al toro cambiava espressione. Si faceva serio, un’ombra greve gli passava attraverso gli occhi. Tornava umano e gentile, come se avesse dei ripensamenti e una missione, e sapesse che quella sua missione non poteva in nessun modo essere scansata, saltata, rimandata. 

Ed è stato così, con quella consapevolezza in viso, che, alzando lo sguardo sullo schermo, me lo sono ritrovato nell’arena da solo.

Il toro raspava la terra e si lanciava in una corsa barcollante ma solida, a testa bassa e lingua di fuori. Il torero procedeva a passi slanciati simili a quelli di un uccello trampoliere verso il centro dell’arena. Tutto si sarebbe svolto nel giro di una decina di minuti, non di più. Le banderillas facevano sembrare Hechicero un animale festoso, ornato; la postura di Cortés lo faceva apparire gigante, ancora più solo, ancora più sguarnito. Il toro caricava e l’uomo si scansava, sporcandosi i pantaloni del rosso intenso del sangue. Il suo volto trasfigurava in maschere complesse, terrificanti, ghigni di guerra e di coraggio. Parlava di continuo: al toro, al pubblico, a sé sesso, ma la sua voce non arrivava al di sopra dei microfoni dei commentatori e non riuscivo a immaginare cosa dicesse. 

Sapevo che il mio nemico stava cambiando, sentivo che anche io stavo cambiando con lui perché non riuscivo più a togliergli lo sguardo di dosso. Adesso il destino del torero mi sembrava molto più importante di quello del toro, perché se la fine del toro era scritta, quella del torero era tutta da vedere. L’umanità di Cortés si stava esprimendo nella sua solitudine, e la gentilezza che gli avevo visto in volto per i pochi sperduti secondi in cui l’aveva concessa alla telecamera adesso si traduceva nel modo in cui accoglieva le cariche di Hechicero, ogni volta rivolgendogli la parola più da vicino, come se volesse confidargli qualcosa all’orecchio mentre faceva scivolare via la muleta con la mano sinistra e teneva la spada nella destra, lungo un fianco. Il suo segreto misericordioso. 

Senza nemmeno rendermene conto, ero con Cortés: avvertivo la sua umanità mentre il toro gli correva incontro. E quando è stato il momento della stoccata, quando con espressione infinitamente grata ha infilato la spada nella groppa dell’animale, il mio odio era svanito e mi sono sorpreso ad ammirarlo. Era arrivato in fondo, aveva compiuto la sua missione. Era sfinito e soddisfatto e ne aveva tutto il diritto. Vedendo Hechicero fermarsi incerto, annaspare e cadere di lato, il vecchio dolore è tornato a farsi sentire, ma allo stesso tempo Cortés che prendeva gli onori che gli spettavano non mi colpiva come l’affronto che avrei immaginato. 

Ho riguardato il momento della stoccata varie volte, molte più di quelle che avevo messo in conto. A dirla tutta: non pensavo nemmeno che ci sarei arrivato, alla fine. Eppure, ecco che, nell’osservare il mio primo torero che, trasfigurato dallo sforzo e dalla soddisfazione, assestava il colpo di grazia al mio primo toro, provavo la stessa soddisfazione, condividevo con lui lo stesso sforzo. Lo vedevo nella sua complessità e nella sua completezza: un eroe trionfale. Non lo odiavo più, lo capivo. Mai e poi mai avrei voluto trovarmi al suo posto, ma invidiavo il modo in cui, con grazia pressoché assoluta, aveva raggiunto il suo apice e vinto fatica, dolore e paura per tutti coloro che lo stavano guardando. Me compreso.

Capita di rado di poter assistere al collegamento vonnegutiano mentre si compie, ma grazie a Javier Cortés  e al sacrificio di Hechicero avevo capito qualcosa di Hemingway, della paura, della grazia sotto pressione e dell’eleganza con la quale si può stare al mondo. È strano, perché mai avrei pensato che sarebbe stata una corrida a farmi riflettere su questi argomenti. E mai avrei pensato di scriverne.  

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