España Vacía -2

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Prosegue e si conclude qui il reportage di Baravalle

Sol y sombra

I due settori in cui è divisa una plaza de toros riflettevano un tempo una divisione sociale: i ricchi all’ombra e i poveri al sole. Per sole s’intendeva il sole della Spagna di un tempo che oggi è diventato un sole europeo, comune a tutti i Paesi europei, ma questo è un altro discorso. Gli intermedi, quelli né ricchi né poveri, stavano nei settori sol y sombra: all’inizio erano al sole, ma a partire dal terzo toro, se avevano resistito, potevano sperare in un modesto refrigerio. Erano tempi in cui anche in Spagna era raro che si raggiungessero i 40 gradi ad aprile come accade “normalmente” da alcuni anni. Del resto con la decadenza del toreo, le piazze si sono riempite di un pubblico che non prevede più il vecchio aficionado, modesto ma competente. I biglietti, sempre più cari, vengono acquistati a mazzette da enti e ditte che li regalano ai loro clienti, caciaroni e dediti all’alcol (calimocho e affini). Notevole, nelle poche grandi occasioni come le rare apparizioni del torero artista José Tomás, la presenza di un circo mondiale di aficionados danarosi proveniente da tutto il mondo. Le entradaspossono costare anche migliaia di euro e vengono vendute su internet attraverso vari artifizi. Nella recente corrida di Jaén nel giugno 2022 le entradas per l’esibizione di Tomás, unico espada con quattro tori, sono andate esaurite due minuti dopo l’apertura della vendita su internet. Nei giorni successivi sono apparse in rete numerose offerte di questo tenore: vendo 4 bottiglioni di olio di Jaén e regalo 4 biglietti per la corrida di José Tomás tendido tale, fila tale, numero tale, a 3.800 euro. La reventa è vietata ma non la vendita di bottiglioni di olio. Per Jaén, remota città immersa in un mare di ulivi, un tipico posto della  España Vacía, la corrida di Tomás è stata una manna , tutto esaurito nel raggio di 50 km, 30.000 arrivi, svariati milioni di euro spesi e incassati.

Nel mese di maggio di ogni anno a Madrid si celebra la feria di San Isidro. La capitale spagnola è una megalopoli moderna per cui San Isidro è diventata nulla più di una festa come tante altre. A suo tempo fu celebrata da due splendidi dipinti di Goya, ancora visibili al Prado, dove si illustrava la Pradera de San Isidro, colma di popolo intento alla tradizionale merienda. A San Isidro si celebra ogni giorno, per un mese, una corrida di tori, ospitata nell’arena di Las Ventas, oggi piuttosto malconcia dopo i due anni di inattività: lampioni rotti, piastrelle mancanti, ruggine che cola dalle ringhiere, seggiolini sconnessi. Per cui, quest’anno, 2022, nessuno avrebbe scommesso un bottone sulla riuscita del ciclo di corride. Invece, a fine mese, il bilancio ha parlato di 660.000 biglietti venduti pur nella modestia delle figure torere presenti nell’arena.

Lo scrittore e giornalista Manuel Vicent, all’inizio di San Isidro, aveva pubblicato un articolo sul quotidiano El País dove scriveva testualmente:

“benché la corrida dei tori sia in piena decadenza e la crudeltà che essa porta in sé produca in continuazione una sorta di rifiuto civile, è sicuro che questo residuo della Fiesta Nacional è stato preso da una parte della destra politica con un carattere ideologico militante, un gesto di sfida, come una bandiera presa al nemico. Oggi, essere appassionato ai tori, essere di sinistra e andare alla feria di San Isidro è un boccone molto amaro da trangugiare, considerato che ogni corrida di tori si è trasformata negli ultimi tempi in una manifestazione spontanea di Vox o del Partido Popular.”

Come dargli torto? Il problema è che la corrida, il toreo, è sempre stato, dal post Guerra Civile a oggi un territorio culturalmente occupato dalla sinistra. Picasso era taurino, Hemingway non parliamone, José Bergamin, cattolico antifranchista morto in odore di eresia etarra ne era un appassionato cultore. Del resto non è passato molto tempo da quando a ogni corrida di San Isidro era possibile incontrare nella barrera di Las Ventas un ministro socialista con un puro in mano: il sigaro cubano era uno degli accessori classici dello spettatore da corrida. Certo quella era l’epoca dell’affascinante Felipe González, Presidente del Governo, quando le militanti socialiste gridavano:  Felipe, capullo, queremos un hijo tuyo! Vogliamo un figlio da te. Altri tempi. Oggi, le masse egemonizzate dalla destra accusano i socialisti di Sánchez e ancor più gli odiati esponenti di Podemos di avere completamente abbandonato il toreo. E qui ritorniamo alla Spagna profonda, alla Spagna vuota che si sente svuotata dalla “politica” di una delle sue tradizioni fondamentali più ancora che di un’attività economica, di una filiera. Non è tanto questione di qualche matador di secondo piano che viene candidato, senza grande successo peraltro, nelle liste di Vox. È una questione più complessa. È una voce che grida: “c’è la crisi, sono senza lavoro, abito in un buco lontano dal mondo e non posso neppure più vedere una corrida di tori alla festa del mio paese”. È un grido in più che si leva dalla Spagna svuotata. Un grido che è venato anche di machismo, di nostalgie fascistoidi, di robe brutte e aggressive che le nuove liste uscite dalle ultime competizioni elettorali non sanno ancora bene come gestire. Spesso, in questi primi passi politici appaiono destinate a essere un supporto delle forze maggiori della destra. Altrove tentano di concentrarsi sul conseguimento di obiettivi concreti e definiti: una strada, un ospedale. Gli esponenti locali del PSOE allargano sconsolati le braccia: ”Sono le cose che richiediamo da 20 anni…. ma che non sono mai arrivate” quindi, le ultime elezioni autonomiche in Galizia, in Castiglia e León e più di recente in Andalusia sono state un massacro per la sinistra. In Andalusia, patria di Felipe González e bastione socialista, soprattutto. Qualcuno ha detto che per capire le proposte della Sinistra (peraltro presentatasi rigorosamente divisa) occorreva aver fatto un master alla Sorbona. La destra invece andava diritto all’obbiettivo: sangue e suolo essenzialmente. 

In tutto questo contesto, che fine ha fatto l’indipendentismo? Il movimento che, soprattutto in Catalogna, ha tenuto in ansia governi e opinioni pubbliche, mobilitando le masse in grandi manifestazioni e provocando delicati problemi istituzionali? 

L’Indipendentismo si lecca le ferite dopo la pandemia. È apparso chiaro che di fronte a grandi crisi non sempre “piccolo è bello”. Se si deve lottare, se si devono spuntare forniture e prezzi di vaccini è meglio essere più grossi che si può contro il big pharma. Se si debbono organizzare profilassi e cure che hanno orizzonti immensi (il virus circola in tutto il mondo) è meglio essere piuttosto grandi e strutturati. Questa, forse con la sola eccezione della piccola Cuba, sembrerebbe essere una delle lezioni importanti che la crisi pandemica ci ha fatto imparare.

La culla dell’indipendentismo nella penisola Iberica, la Catalogna, giova ricordarlo, ha una superficie di soli 32.000 km quadrati con 7.543.000 abitanti.

In ogni caso, sembra che, aree indipendentiste o meno, certi problemi siano gli stessi.

Il Festival cinematografico di Berlino del 2022 ha premiato un film che riguarda proprio, in modo originale, lo svuotamento della Spagna. 

Alcarrás, che è anche il titolo del film diretto da Carla Simón, è un pueblo aragonese, dove tutti parlano una specie di catalano. I protagonisti sono una tipica famiglia numerosa di contadini, dal nonno patriarca ai bimbetti di due anni, che da secoli coltiva lo stesso grande podere. Oggi, sono le pesche l’oggetto unico della loro attività agricola. Il problema è che, non essendo proprietari della terra, non possono decidere sui nuovi assetti produttivi che la divisione internazionale del lavoro prevede. Vi ricordate quando abbiamo detto che la Spagna agricola è dominata dalle macrocoltivazioni? Loro sono grandi ma troppo piccoli per le nuove misure imposte dal mercato. I prezzi delle pesche crollano e il proprietario dell’azienda agricola vuole estirpare tutto per fare posto a una distesa immensa di pannelli solari. Lo sradicamento delle piante è vissuto dalla famiglia contadina come il loro proprio sradicamento. Come se strappassero loro il cuore: per qualcuno ci sarà forse un posto di lavoro nei pannelli solari, ma non per tutti. E poi, erano agricoltori da generazioni. Il campo è stata la loro vita. I giovani in età di lavoro non potranno più continuare a fare quello che facevano i loro avi. La festa del pueblodiventa quindi un pretesto per ubriacarsi e tentare piccole trasgressioni, magari con l’aiuto di qualche pianta di erba coltivata in mezzo al mais. Si rompono anche solidarietà consolidate tra le generazioni. Il film si conclude con la famiglia triste e attonita che osserva i suoi meravigliosi alberi di pesco pinzati dalle ganasce dei bulldozer. 

Tutto lascia presumere che la famiglia, non volendosi piegare ai tempi e alle scelte della modernità, lascerà la casa che ha sempre abitato in cerca di un nuovo improbabile destino. Nel frattempo lo splendido podere diventerà un altro pezzo della Spagna svuotata. 

(2 – fine)

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