Domenica di tori

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Nell’agosto del 1954, Richard Wright lascia Parigi e si ferma a Barcellona a studiare la Spagna che Gertrude Stein gli ha sempre consigliato di visitare. E’ la Spagna di Franco e la cronaca di Wright oggi può apparire datata. Ma sono molte le intuizioni che invece hanno carattere metastorico. Che convincano o meno, testimoniano di quell’imprendibile spirito spagnolo che ancora inseguiamo, malati di Mediterraneo. Nella seconda parte del libro, intitolata Morte ed esaltazione, Wright dedica sette capitoli a una domenica di tori. Eccone alcuni stralci.

“Sapete che cosa significa “Olé“?”

“E’ soltanto un’esclamazione”

“E’ una parola moresca” dissi.

“Davvero”

André informò i suoi sull’origine della parola

“Che significa?”

“Per amor di Dio!”

Mi guardarono a bocca aperta stupefatti.

(…)

La conversazione su tori e toreri sommerse un pranzo lungo e pesante che nuotava nell’olio. Era una giornata calda e afosa e sudavo benché fossi in maniche di camicia.

(…)

Ci rianimammo e dopo lunghi saluti alle done ci precipitammo giù per le scale buie e puzzolenti e usciti in strada salimmo sulla mia macchina. André e il cognato erano talmente eccitati che non parlavano più; stavano seduti in silenzio, tutti protesi in avanti, gli occhi fissi e sbarrati. C’era molto traffico: tutti andavano alla corrida. A mano a mano che ci avvicinavamo all’arena, anch’io cominciavo a sentirmi contagiato dalla febbre dei tori.

(…)

Mi bastò contemplare per trenta secondi quel nero cumulo di violenza scatenata perché il mio istinto mi dicesse con certezza assoluta che, pur essendo indubbiamente e paurosamente reale, quel toro infuriato era al tempo stesso un complemento di una parte sogettiva di tutti i presenti; che pur essendo un animale ben concreto e aggressivo, era una creatura della nostra immaginazione comune.

(…)

La morte doveva servire come battesimo laico emotivo per purificare l’animo delle sue colpe nascoste… E il matador, nello scintillante traje de luces, era una specie di sacerdote laico che celebrava la messa per trentamila peccatori penitenti.

(…)

Questo era il punto culminante, terribile e meraviglioso, che evocava l’odore di morte nelle narici, il gusto della morte in bocca, e il senso della morte nel sangue: un modo di provare mediatamente la morte.

(…)

Quasi a una voce, trentamila gole esplosero in un lento, sommesso Olé, (Per amor di Dio!)

Era stata una cosa meraviglioa e terribile, spaventosa e splendida.

(…)

Mi sentivo svuotato, prosciugato, del tutto incapace di altre emozioni, in preda a una specie di torpida pace bovina che mi era calata addosso. Seguivo la folla silenziosa, rilassata, nella srada, e mi sentivo in qualche modo distaccato dal mondo solido, pratico, consueto, nel quale mi muovevo. Ero rassegnato a quel mondo, lo accettavo, non me ne curavo, ero, insomma, indifferente alla vita che avevo di fronte, tanto le mie emozioni erano saturate dall’umore in cui mi avevano immesso il sangue, la violenza, il sacrificio.

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