GRANADA. Quando lasciamo il nostro posto sugli spalti in una di quelle sere di tori destinate a passare alla storia, un’emozione devastante ci invade. Attorno a noi, le persone con cui abbiamo condiviso l’estasi stanno tornando alle loro vite. La pietra su cui era poggiato il cuscino giallorosso in cui per ore ci siamo dissolti torna pietra. I programmi sono in terra, accartocciati fra lattine di birra e bottigliette d’acqua. I contenitori conici che erano zeppi di mandorle salate hanno perso forma già schiacciati dai tacchi di chi sciama verso il vomitorio, assieme ai resti di bruscolini, ai vassoi di pasticceria e alle cartate di panini all’olio pieni di jamón iberico masticati durante la pausa fra il terzo e il quarto toro. La perfetta unità che si era formata attorno a noi è perduta e non sappiamo più come raccontare il vuoto che abbiamo dentro. Perché è il vuoto ciò che ci riempie le viscere quando viviamo l’estasi tauromachica.
Quello che accade è noto a chi abbia dimestichezza con serate di trionfo taurino. Ci affanniamo a cercare qualcuno per parlare ancora, raccontare, mimare un gesto, cercando di fissare per sempre l’eternità effimera che abbiamo vissuto. Invano. La sensazione che tutto ciò che stiamo tentando è destinato al fallimento è costante. E infatti abbracciamo i nostri amici che hanno vissuto altrove, da altri spazi della plaza, la corrida. E mentre li abbracciamo scopriamo che neppure quella fusione di corpi riesce a restituirci la completezza. Erano i corpi sconosciuti dei nostri vicini quelli in cui volevamo perderci, quelli in cui, durante la faena sublime, ci siamo persi. Erano altri corpi. Allora sfioriamo le vette di una consapevolezza definitiva. La consapevolezza di un’esperienza estetica antichissima che oggi la tauromachia ci restituisce in maniera esemplare. E questo dovrebbe bastare a difenderne l’esistenza oltre ogni possibile discussione. Ma di cosa sto parlando?
Ieri, mentre lasciavo il mio posto sugli spalti della Monumental di Frascuelo, questo gioiello neomudéjar che Granada si concesse nel 1927, mi sono chinato a osservare la pietra ormai pietra che stavo lasciando. Non c’era più nessuno accanto a me tranne una ragazza all’estremità del palco, una ragazza che conosco bene. Allora mi sono avvicinato. Era china sul suo portatile, il volto stretto fra le mani. Patricia Navarro è stata torera e oggi scrive magnifiche cronache taurine per La Razón. “Spero che troverai le parole” le ho detto. Ha alzato la mano per stringermi il braccio. Mi ha guardato come se stesse ritrovandosi dopo una specie di assenza, mi ha messo a fuoco e con un’espressione sognante ha detto: “Non esistono le parole. Quel che abbiamo vissuto ce lo porteremo sempre dentro”. L’ho lasciata al portatile su cui doveva affrettarsi a chiudere la sua cronaca. Ho preso la via del vomitorio poi – non so perché – sono tornato indietro. Volevo vedere se Patricia aveva ripreso a scrivere. Se aveva trovato una via per compiere il suo dovere professionale. Mi sono affacciato sul palco dalle file inferiori divise da una barriera percorsa dai colori di Spagna e l’ho vista. Stava piangendo.
Del significato più profondo di ciò che abbiamo visto ieri, 22 giugno, in questa città di bellezza devastante parlerò più tardi. Le cronache taurine potete trovarle in rete. Oltre a Patricia Navarro che comunque la via per il suo dovere ha dovuto trovarla, potete leggere, fra gli altri, Andrés Amorós, Antonio Lorca, Vicente Zabala de la Serna. La mia via adesso è quella della nostra percezione, di quello svuotamento estatico che ci affatica e ci affligge perché ci sta sfuggendo qualcosa di sublime che non sappiamo e non possiamo dire. Ebbene, è un’esperienza che nella nostra storia culturale affonda le radici nel rito che aveva a che fare con il capro e che dal capro prese il nome: la tragedia. In quel libro sublime che Friedrich Nietzsche scrisse nel 1872 a ventott’anni – La nascita della tragedia dallo spirito della musica – noi scopriamo che nelle prime fasi della tragedia antica, almeno fino a Euripide, gli spettatori venivano coinvolti dalla musica del coro a tal punto da perdere consapevolezza della propria individualità. L’intuizione nietzscheana, benché sia stata messa in discussione dagli studiosi, ci racconta perfettamente quel rapimento estatico che alcune forme d’arte producono. Quando, più che le parole conta la musica, quella musica magari interiore che ci fa perdere il principium individuationis e ci spinge a sentirci parte di un’animalità superiore, in cui non contano più i nostri nomi e le nostre vite, ma solo il principio per cui apparteniamo al regno animale.
Andate alle corride di tori e pregate perché vi sia data la possibilità di vivere quelle serate in cui non vale più alcuna spiegazione perché l’unica cosa che sognate è abbracciare i vostri vicini e fondervi nella plaza che assieme a voi ha perso il senno, è caduta nel regno dionisiaco dell’ebbrezza e sente di poter cogliere qualcosa che sempre ci sfugge e sempre continuerà a sfuggirci. Potete vivere questa sensazione in molti modi, ma solo il teatro è capace di crearla in maniera tale da farci sentire parte del tutto che è il teatro stesso, ossia l’insieme degli spettatori. E nessun teatro può crearla meglio del teatro tragico taurino, dove ancora è il rito sacrificale a dominare la scena, dove è ancora l’animale stesso il centro della scena e la dimensione in cui noi possiamo e dobbiamo dissolverci. Unendosi all’animale, creando la figura del Minotauro, il grande torero concede ancora a noi esseri umani finiti di percepire qualcosa di cui la nostra epoca di finti miti e ingannevoli conoscenze virtuali crede di aver decretato la fine. Ossia l’estasi, l’uscita da se stessi, dai nostri corpi individuali per dissolverci nel corpo animale privo di logos che tutti i viventi unisce.