A scadenze regolari, negli ultimi anni in cui l’ipersemplificazione e l’infantilismo hanno preso il potere sull’Occidente omologato, compare un sondaggio che viene sventolato dagli antitaurini per giustificare le proposte abolizioniste circa il mondo dei tori. Le cifre cambiano spesso ma di fatto l’inchiesta sancisce lo scarso interesse che susciterebbero oggi i tori in Spagna. “Solo il 30 per cento è interessato” ripetono gli abolizionisti. Magari la percentuale è anche inferiore. Poco importa. Ogni volta infatti io mi domando che senso abbia rivendicare un basso interesse in termini percentuali come prova esemplare che i tempi sono maturi per chiudere definitivamente questo spazio di arte, rito, celebrazione laica assolutamente unico nel nostro Occidente.
Quel che mi viene sempre da rispondere è: quanti sono interessati all’Opera? Quanti sono interessati al balletto? Quanti sono interessati a non so quale altro spettacolo? Insomma: è la percentuale di interessati in un’arte, un culto, un rito a stabilire l’ammissibilità di quel rito, arte o simili? Se oggi gli interessati all’Opera sono una stretta minoranza ciò significa che l’Opera debba essere abolita? Prendiamo il teatro nel suo complesso. Nei tempi antichi, quando il teatro nacque dal rito del capro e la città intera partecipava, il teatro aveva senso pervasivo. E oggi che la città intera partecipa a ben altri riti e solo in pochi frequentano il teatro (che è certo intrinsecamente mutato) dobbiamo forse chiudere i teatri del mondo?
Ma c’è un’altra questione ancora che mi preme in questo caso così paradigmatico della follia infantile a cui ci siamo ridotti. L’abolizione sarebbe una conseguenza del disinteresse. Ora, pur ammettendo che tutti i disinteressati siano favorevoli alla fine di un mondo, il punto è: l’abolizione per disinteresse chi la stabilisce? La maggioranza dei disinteressati? Ovvero la maggioranza che nulla sa di ciò che viene abolito? No, perché nel caso dell’Opera, per giustificarne la sopravvivenza, si risponde facilmente che pochi la possono capire e apprezzare, quell’arte. Non è certo immediata come il cinema o il calcio, restando a spettacoli che suscitano invece il consenso della maggioranza. Non è di immediata comprensione. Ora, io sono sempre scettico quando si ritiene difficile e poco immediata un’esperienza estetica, e tuttavia non complichiamoci la vita con Kant. Quel che è certo è che se non sono di immediata comprensione l’Opera o il teatro, come potrebbe mai esserlo la dimensione tauromachica che si apre in una plaza de toros, durante una corsa di tori, con cavalli, picadores, squadra di banderilleros, messa a morte dell’animale dopo tre atti tragici, il Presidente che regola lo spettacolo, i monosabios che si curano dei cavalli, gli areneros della sabbia in pista e gli alguaciles che ripetono un gesto svuotato di senso eppure decisivo. E insomma: come si può invece giudicare questo mondo di infiniti gesti, di regole, di pesi, sorteggi, disposizioni. Questo mondo ricchissimo e a tal punto complesso che non si smette di scoprire qualcosa anche a anni di distanza dai primi passi, dai primi tori?
Nessuno di fronte a due scacchisti, ignorando il funzionamento degli scacchi, si azzarderebbe a dire: che stupido gioco, sarebbe bene che non perdessero tempo. Nessuno si azzarderebbe a chiedere la soppressione di qualcosa di cui tutto ignora. Eppure la corrida fa eccezione. E dire che è ben più complessa di teatro e scacchi messi assieme. Si tratta di un’esperienza estetica così potente e illuminante che sono innumerevoli gli artisti, gli scrittori e gli studiosi che si sono dannati per venirne a capo. Altro che scacchi e Opera! Siamo molto più in là. Potremmo dire addirittura che in fondo la vera eccezione della corrida sta tutta in questa sua difficoltà. Tanto che fra gli appassionati, ovvero fra chi in quel mondo di oscuri misteri entra, è difficile trovare chi poi abbia voglia di uscirne e non tenti invece ogni via per portare alla luce il mistero e non affronti ogni ostacolo e non conosca ogni genere di persona con cui condividere un sogno. Ecco, per esempio, una delle altezze indiscusse dei tori. Poco quantificabile nella dimensione sondaggistica che oggi chissà perché tenta di sostituirsi alla democrazia. Eppure di enorme rilevanza da tutt’altro punto di vista. Perché quale genere di arte o di rito oggi spinge gli appassionati a conoscersi, incontrarsi, discutere, raccontare, condividere come accade nel mondo dei tori?
Tanto per dirne una. L’altro giorno ero a Napoli e finito il lavoro ho preso una delle fenomenali metro cittadine e sono sceso al Vomero. Mi aspettava, a casa sua, uno di quegli aficionados che si trovano in giro per l’Italia. Uno di quelli che hanno coltivato la loro passione nella solitudine ultimamente quasi carbonara delle proprie conoscenze irrise dalla massa. Felice Trenca nella vita ha fatto molte cose e fondamentalmente il dirigente RAI, ma la sua passione dominante è stata sempre la Spagna, la storia del Paese della guerra civile e i tori. Mi aspettava sul pianerottolo, Trenca, vestito come un lord inglese. Classe 1937, mi ha fatto entrare subito nello studio delle meraviglie. Il sole trafiggeva le librerie e i cimeli e le fotografie e tutto quell’insieme di cose che formano stanze che noi aficionados conosciamo bene. La libreria taurina, i biglietti delle corride più importanti, le foto, i giornali, i soprammobili e quei colori che ci fanno sempre sentire il profumo di arena anche quando siamo lontani.
Mi ha raccontato la sua storia, Trenca, fin dai primissimi anni di età quando in casa si scoprì che il piccolo mangiava volentieri solo quando alla radio suonava la sigla de L’ora delle forze armate, un pasodoble. Mito, fantasia o realtà, a tanto arriva la folle ricerca di una ragione per chi viene preso dalla febbre dell’afición. Ragioni oscure soprattutto ai tempi in cui la passione tauromachica nasceva attraverso riviste, racconti, fotografie sbiadite. A dieci anni, Trenca dice di ricordare perfettamente via Toledo, il 28 agosto 1947, l’edicola che tirava fuori il dispaccio di agenzia verso le sei e quel giorno in cui si strillò la morte di Manolete e lui che soffriva come per la perdita di un familiare. Da dove venisse tutto quello lo avrebbe scoperto dieci anni dopo, nel 1958, quando con una borsa di studio, Trenca se ne andò a Barcellona e comprò subito il suo primo ingresso alla Monumental. “Ecco la foto” mi racconta aprendo il suo album più segreto. “L’alternativa di Diego Puerta. Un posto in contrabarrera. Giornata indimenticabile”.
Non so se la fantasia si sia sovrapposta alla realtà e m’importa poco. Secondo gli annuari Diego Puerta prese sì l’alternativa nel 1958 ma a Sevilla, il 29 maggio, padrino Luis Miguel Dominguín. Forse quel giorno se ne parlava ancora? O forse quel pomeriggio prese l’alternativa qualche altro torero assieme a lui, fresco dell’alternativa presa a Sevilla? Chissà. Poco importa. In fondo l’alternativa quel giorno la stava prendendo lui, Felice Trenca. Chi non sappia di cosa si parla quando si parla di alternativa, diciamo subito che è in sostanza l’entrata a pieno titolo nel novero dei matadores de toros. Prima si sono uccisi solo novillos, tori giovani, meno pericolosi per dimensione e intelligenza. Poi viene il giorno in cui una vera e propria cerimonia nell’arena porta il giovane torero a alternare con il suo padrino, a uccidere il toro che spetterebbe al suo padrino, entrando così in una dimensione che dovrà essere confermata (quasi fosse una cresima o una laurea) a Madrid, in quella che Hemingway chiamava la Scala della corrida.
E così quel giorno l’alternativa la prese lui, Trenca: entrò finalmente nel novero di coloro che sono presi dal virus e non smise più di fare i conti con i tori. Si era preparato bene. Era entrato da anni all’Istituto Santiago che sarebbe poi diventato Cervantes. Aveva passato pomeriggi nella biblioteca dominata dal Cossío e ora non c’era troppo di cui sorprendersi. “A quel tempo Barcellona era in Spagna” mi dice ridendo “e c’era tutto quel che io sognavo: corride, flamenco, la letteratura più amata”. Ma erano anche anni duri. Trenca li visse da spettatore inconsapevole dei rischi. Nel 64 a Granada parlava in giro tranquillamente della morte di García Lorca e al ritorno in hotel scoprì che i documenti gli erano stati portati via dalla polizia che lo aspettava per un serrato interrogatorio. “Non si poteva parlare liberamente. A Toledo una guida me lo disse chiaro e tondo. Io raccontavo delle atrocità dei mori a mia moglie e quello s’intromise per spiegarmi che di quel passo sarebbe stato costretto a denunciarmi. I delatori erano ovunque”.
Ai tori però l’atmosfera era quella di sempre. Nel secondo anno di passione vorticosa, Trenca s’imbatté anche in Don Ernesto, appena tornato in Spagna nonostante Franco, per assistere ai famosi mano a mano fra Ordóñez e Dominguín. Mi mostra il biglietto. È incorniciato in un passepartout dove regna il titolo del libro hemingwayano uscito postumo: Un’estate pericolosa. “Che giornata fu quella. Hemingway col suo cappellino nelle prime file. Valencia che ribolliva di gioia. Come ogni tarde de toros, quando la città esplode di passioni”. Miglior torero visto in vita Antonio Bienvenida. Migliore corrida probabilmente quella del 15 agosto 1973 a Sevilla. Anche per come se la conquistò. Cartel da spezzar le ginocchia: Bienvenida, Curro Romero, Rafael de Paula. Tutto esaurito da giorni. Trenca cercava disperatamente un bagarino, la classica reventa, ma invano. A un tratto nella canicola disperante della controra, si fermò a ingiuriare tutti gli dèi che si erano opposti al suo sogno di fronte all’ultimo baracchino di rivendite trovato vuoto, deserto. C’era un vecchio lì accanto. Sonnecchiava, masticava qualcosa in bocca, sembrava assente. A un tratto si tirò su e gli chiese perché fosse così arrabbiato e perché volesse così tanto un biglietto. Lui spiegò l’importanza della corrida e il desiderio di iniziare il figlio con una tarde del genere. Disse che veniva apposta dall’Italia e che non si capacitava del fatto che non riuscisse a procurarsi un’entrata. Il vecchio gli fece un cenno. Si alzò, tornò con due biglietti. “Non vogliamo che entrino stranieri oggi, o meglio turisti. È una corrida troppo importante perché entri gente inconsapevole. Ma lei rappresenta un’evidente eccezione”. Quel giorno Felice Trenca poté alternare con il figlio. Battesimo autorevole. Alternativa dorata. E la febbre della passione passò di padre in figlio. Numeri irrisori nella civiltà dei sondaggi?
Grazie! Grazie anche per aver ricordato Diego Puerta, ottimo torero maltrattato dalla critica finché fu in attività e riabilitato dal Cossio quando si ritirò. Certo, ai suoi tempi la scena era dominata da Paco Camino e El Viti (per non parlare di Manuel Benitez, del quale, appunto, è meglio tacere).
La sensazione, quando si ascoltano discussioni sull’abolizione della corrida, e che vi sia ormai un’ansia di affermasi politicamente corretti, sempre e comunque, di omologare tutto conoscendo poco o niente.
Viviamo un’epoca ben strana, prevale l’esigenza del giudizio, ma pochi s’interrogano al richiamo del dubbio.
Comunque Matteo Nucci ha il grande dono dei cantastorie