JT: il parricidio

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Nîmes. Ci sono sere in cui, dai tori, si esce trasformati. È accaduto quello a cui aspira ogni incontro fra uomo e animale: produrre un trasalimento che dà una gioia sconfinata, una sorta di ebbrezza: l’impressione che la vita possa avere la meglio sulla morte. In quelle sere, i fortunati che escono dall’arena, in genere tentano di ripercorrere quanto è accaduto, di risalire alle origini estetiche del loro trasalimento. Chiunque li potrebbe vedere mentre camminano per strada e ridono, aprono le braccia, bevono, sputano disperatamente la coccia delle pipas che si è infilata tra i denti, eppoi cercano di ripetere qualche movimento, qualcuno dei movimenti magici che si sono manifestati come un dono divino nella plaza. Se vedete uomini che escono in questo stato dall’arena, sapete cosa sta capitando loro: sono impegnati in una delle più impossibili delle operazioni concesse ai mortali: fermare un istante con cui credono di aver vinto la morte, cercare di ritrovare il movimento plastico, di inaudita bellezza, quel movimento in cui l’uomo e il toro si sono uniti perfettamente e che è già scivolato via per sempre, è ormai andato a finire tra le estasi fuggevoli perse nell’eternità del tempo, è irrimediabilmente scomparso e non tornerà mai più. Eppure chi esce dall’arena non vuole saperne. Prova con un natural, seguito da un altro natural. Un cambio di mano. Una impressionante chicuelina seguita da una media che sembrava tagliare l’aria e annichilire di silenzio ogni cosa. Chi esce dall’arena non vuole crederci che la corrida sia finita e quella vittoria sulla fine sia passata e non ci saranno televisioni, video, testimonianze o racconti capaci di restituirla. Chi è appena uscito dalla plaza che consacrerà fra i luoghi elettivi di tutta una vita cerca di riprodurre il gesto, il desplante supremo, lo sguardo del matador, i due passi di toreria con cui si è voltato al termine di una serie impressionante. Non ne vogliamo sapere della nostra mortalità. Non vogliamo accettarla.

Ci sono volte in cui poi uno esce dai tori e non prova a ripercorrere neppure un movimento perché se ne sono visti talmente tanti che non si è capaci di ritrovare un solo gesto. Il trasalimento è stato a tal punto feroce da averci condannato alla consapevolezza. Usciamo dall’arena sapendo già che tutto quel che abbiamo visto è perduto per sempre e non lo ritroveremo mai più. Sapendo che dovranno passare anni prima di poter provare qualcosa di simile. C’è un sorriso stampato sulla faccia di chi esce dall’arena che è un sorriso inebetito e triste. Come se tutta quella festa, tutta quella gioia fosse andata a creare un’eternità tale che l’eternità è già finita: siamo mortali, la nostra festa ha sfiorato le divinità, le divinità non ce lo perdoneranno.

Per chi va a i tori si tratta di momenti che creano uno spartiacque, una linea di confine. Questa linea è stata tracciata tre giorni fa, a Nîmes, nella corrida del mattino, con i sei tori affrontati in solitario da José Tomás. Passeranno anni e si sprecheranno litri di inchiostro per tentare di decifrare cosa sia capitato in quelle due ore e mezzo di estasi. Amanti e detrattori. Critici e idolatri. Nessuno potrà evitare di confrontarsi con l’argomento perché non c’è dubbio che la storia della tauromachia ha trovato, nel sole che inondava l’arena romana di Nîmes domenica mattina, una di quelle tappe epocali, forse simboliche, che scandiscono il cammino della storia della corrida moderna. Si tratta indubitabilmente del momento più importante che la breve vita della corrida a piedi ha attraversato dall’inizio del nuovo millennio. E così stanno le cose, che piaccia o meno l’arte di José Tomás, che piacciano o meno i tori che ha affrontato, che piaccia o meno Nîmes e il suo presidente che ha accordato alla mattinata di tori trofei impensabili altrove: undici orecchie, una coda, un indulto. Il momento è storico per molte ragioni, oltre alla portata del trionfo torero: il 2012 è stato l’annus horribilis della corrida, numeri mai così bassi (principalmente per la crisi economica, ma non solo) proprio nella prima stagione in cui la violenza antitaurina ha spinto al divieto in Catalogna. La congiuntura economico-culturale è drammatica e non basta la difesa degli intellettuali. Un grande aiuto per ora, viene dalla Francia e dalla sua ostinazione, dalla capacità di mostrare la profondità culturale dell’arte tauromachica a tutti gli effetti, fino a aver inserito la corrida fra i beni immateriali  del patrimonio culturale del Paese. Proprio in Francia, anziché come era solito a Barcellona, è venuto a chiudere la sua brevissima stagione (tre corride) il più misterioso e amato fra i toreri contemporanei, l’unico che fa sempre il tutto esaurito e che porta alle ferias cui partecipa un enorme indotto economico. La straordinaria corrida di José Tomás è arrivata dunque nella giornata più simbolica.

Ma saranno altri a raccontare tutto questo. Ci sarà tempo per inserire la data tra i momenti di svolta della corrida, da un punto di vista taurino e da un punto di vista politico, da un punto di vista sociale e antropologico e da un punto di vista filosofico. Contentiamoci, per ora, di capire almeno un po’ il motivo per cui domenica 16 settembre uscivamo dall’arena romana inebetiti, vinti, distrutti da una felicità improvvisamente mutuata in tristezza, una specie di assenza e di vuoto, l’effimero del sublime che già ci faceva mancare la gioia di una miracolosa vittoria sulla nostra natura finita. Cosa era successo nell’arena?

Le cronache possono raccontarci, secondo per secondo, la varietà con cui José Tomás ha affrontato i suoi tori. I gesti con ilcapote, ogni volta diversi. I movimenti della muleta, ogni volta diversi. Le cronache possono raccontarci come il torero abbia conosciuto ogni volta gli animali con cui si trovava a confrontarsi, la sua fermezza nel voler penetrare il cosiddetto “mistero del toro”, la sua capacità di accogliere l’animale e andarne a cercarne subito l’anima per portarla in superficie, svilupparla, farla crescere fino al massimo delle sue potenzialità. Le cronache ci raccontano tecnicamente la natura delle cinque stoccate con cui José Tomás ha ucciso, senza mai sbagliare il primo colpo. Io, però, ora voglio parlare dell’unica stoccata simbolica, la stoccata mancante, quella che racconta esemplarmente le altre cinque stoccate, la spada con cui José Tomás non ha ucciso nessun toro, ma ha ucciso suo padre, il suo padre elettivo: Manolete.

Tutti sanno il rapporto ideale che lega José Tomás a Manolete. È un rapporto che alcuni sono arrivati a considerare alla stregua di un’ossessione. Un’ossessione che gira intorno alla morte. Tecnicamente, per quel che riguarda l’arte, il centro dell’eredità di Manolete è costituito da quello che in generale viene chaimato “toreo verticale”, ossia quell’austerità, quell’immobilità longilinea e apparentemente distante dalla terra, quell’aura ieratica che caratterizza ogni gesto di un corpo che pare aereo, desomatizzato, quasi spiritualizzato, salvo vederlo sanguinare o volare dopo il colpo che esso riceve dalle corna di un toro. Nei particolari, l’eredità del Monstruo si manifesta nell’esaltazione di movimenti che in altri casi e in altre circostanze sono valutati come poco significativi, movimenti – sembra un paradosso o un ossimoro – segnati dall’immobilità: su tutti, l’estatuario e la manoletina. Si tratta di due suertes che Manolete mutuò dal toreo comico. La prima, tutta fondata sull’immobilità del fare la statua, nacque dal gesto ridanciano del celebre Don Tancredo López quando, dipinto di bianco, si fingeva una statua nell’arena che il toro neppure vedeva. La seconda fu inventata da Rafael Dutrus detto Llapisera, uno dei più noti esponenti del toreo comico. Inizialmente erano mosse immaginate per il ridicolo. Con Manolete esse raggiunsero le vette della tragedia. Il grande torero, per raggiungere l’altezza tragica del confronto con la morte, deve saper sprofondare nelle bassezze del ridicolo e del grottesco, per riplasmarle. Manolete e José Tomás sacerdoti ieratici della tragedia cui giunge chi sprofonda nella commedia. Questo, stando al toreo nelle sue figure. E del resto, in assoluto, l’eredità che José Tomás ha colto di Manolete sta proprio nel rapporto profondissimo con la morte, nella sfida alla morte, nella visione tragica della morte dell’artista che ha visto il ridicolo della vita, ossia una danza di seduzione attorno alla morte che non sta soltanto nella ricerca di quella stoccata lenta e perfetta, con cui l’uomo si offre alle corna del toro per ucciderlo mettendosi completamente alla sua mercé. È qualcosa che ha a che fare con l’essenza del mestiere di torero e che semmai abitava già nel detto di Belmonte quando commentò con una delle sue geniali battute: “Se vuoi toreare dimentica di avere un corpo”. Il corpo José Tomás lo lascia in hotel, come si ripete spesso citando una sua risposta, mormorata a mezza bocca quando ancora non aveva deciso di smettere di parlare al pubblico per sempre. Abbandonare il corpo e il ridicolo che esso si porta appresso. Al punto che quel corpo José Tomás lo ha offerto più volte al toro in una sfida totale che ha portato spesso i critici a accusarlo di un atteggiamento suicida ingiustificato, o addirittura di tremendismo.

Tutto questo, a Nîmes, è scomparso. E non tanto perché nell’arena romana José Tomás non si è mai lasciato toccare dalle corna di uno dei sei animali (come del resto è accaduto nelle altre due corride della sua brevissima stagione). Ma perché ha ucciso i suoi tori percorrendo una strada nuova su cui nessuno prima lo aveva visto procedere. È una strada che deraglia dal corso che la storia della corrida prese quando Manolete decise di usare una finta spada per gestire la faena. Reduce da un infortunio al polso, il Monstruo di Cordoba chiese il permesso di usare un bastone di legno che simulava la spada ma ne modificava completamente il peso, allontanandosi drasticamente da quei tre chili che gravavano il lavoro del torero di un carico a volte fisicamente insostenibile. Era la data di nascita dell’ayuda, la spada che, più tardi in alluminio, ha assistito pressoché tutti i toreri nel loro lavoro con l’animale prima di usare la spada de verdad per l’uccisione. Il cambiamento è stato enorme. Non soltanto perché il torero ha potuto usare uno strumento più leggero. Quanto perché si è creato un momento di rottura all’interno della perfetta unità artistica della faena, un momento in cui il torero si ferma, cambia spada, torna nell’arena, mette in posizione il toro con passi di circostanza, per trovare il terreno giusto e le condizioni e la posizione dell’animale più adatti alla stoccata. Una lacerazione nella perfetta unità artistica della faena che domenica mattina José Tomás ha deciso di mettere in discussione per sempre.

Non è stata una scelta tecnica. Non ha toreato, José Tomás, con la spada de verdad, come fa per esempio Juan Mora, osannato autore di una straordinaria stoccata a Madrid il 2 ottobre 2010, un’uccisione che ha lanciato in piedi anche i puristi e ha fatto gridare al capolavoro assicurando a Mora una stagione di contratti e successi ovunque, in cui però il torero non è mai riuscito a ripetersi. No, José Tomás ha scelto un’altra strada. Ha ucciso il proprio padre uccidendo diversamente i suoi tori. Mai si era visto un torero mettere costantemente in posizione l’animale come è capitato domenica scorsa con passi leggeri, perfetti, passi con cui l’uomo non pensava affatto a spostare il toro sul terreno adatto o a dare all’animale il modo di mettere in parallelo le zampe anteriori. Passi con cui il torero danzava attorno al toro, danzava attorno alla vita. Il suo corpo verticale, austero, ieratico stavolta non era più un corpo aereo e insussistente. Era corpo in cui riluceva la vita. José Tomás e il toro. Uomo e animale in un’unità perfetta di derechazos e naturales, un’unica cosa fino a fermarsi, guardarsi negli occhi un’ultima volta, prima che il torero non cominciasse a guardare invece il buco degli aghi, l’ hoyo de las agujas, dove inserire la spada. Dalla danza di morte alla danza di vita. È stato questo, lo spettacolo sublime, esemplare di tutta la perfezione artistica che ha brillato sul Colosseo francese. E questa perfezione è arrivata con l’indulto.

Ora, nessuno può mettere in dubbio che l’indulto di domenica scorsa sia stato esagerato e, secondo le regole tauromachiche, fuori luogo. Ma all’apice di una festa così esaltante tutto è comprensibile. E tuttavia, aldilà di questa comprensione dovuta al delirio della festa, il fatto unico e sconvolgente è che quell’indulto sia arrivato al termine di una faena che José Tomás ha lavorato senza spada. Niente ayuda. Dall’inizio José Tomás ha lavorato il toro con la sinistra, eppoi con la destra, senza portare con sé in pista la spada. Gli appassionati sanno cosa significhi. Significa perdere il mezzo con cui il torero può ampliare la superficie della muleta per farsi passare il toro più lontano dal fianco destro. Significa fare fuori lo strumento che cerimonialmente i torero impugna sempre nella destra e che per questo fa sì che sia chiamato “destro”. José Tomás domenica scorsa con il suo quarto toro non ha portato la spada di alluminio, ha lasciato nel callejón lo strumento che inventò Manolete e ha lasciato per sempre dietro di sé il Maestro che gli è stato padre. Fortuna allora che quando un uomo ha gridato, proprio dopo l’indulto, la sua richiesta: “El pasodoble de Manolete”, nessuno abbia voluto ascoltarlo e solo un ragazzo ha ribattuto sarcastico: “el pasodoble di José Tomás!”

Difficile sapere ora su quali strade andrà il torero di Galapagar. La sua danza attorno alla morte ha cambiato segno. Molti dicono sia stata la ferita mortale a cui è sfuggito miracolosamente nel 2010 a Aguascalientes. Molti pensano che sia stato il figlio avuto dalla sua compagna l’anno seguente. E certo, per i biografi potrebbe essere uno straordinario segnale: il figlio che Manolete non ebbe mai con Lupe Sino, l’attrice che la madre del Monstruo, Doña Angustia, odiava e con cui – si dice – il torero sarebbe fuggito in Messico qualche giorno dopo la ferita mortale di Linares, il 27 agosto del 1947. Il figlio che avrebbe portato José Tomás al definitivo parricidio. Ma è inutile tentare la strada delle interpretazioni psicologiche. Certo, domenica, si è assistito a qualcosa di epocale, comunque la si voglia vedere. E forse il momento che più lo ha dimostrato è stato un indulto tecnicamente ingiusto in cui però si è sentita tremare l’ebbrezza dell’estasi umana quando gli uomini credono davvero di aver vinto la morte eliminandola dal mondo, anche dal mondo animale, anche dal toro che con la sua morte, una morte animale non razionale, dovrebbe lasciare all’animale razionale, l’uomo, la possibilità di trionfare sulla propria mortalità. Senza spada, il torero ha incontrato il suo toro e lasciando cadere simbolicamente la spada in terra il torero ha lasciato correre verso le stalle il suo toro. Senza spade finte il torero ha ucciso il suo Maestro e forse lo ha superato, e certo se ne è allontanato per sempre. È impressionante, infine, il nome che portava il toro di Parladé che gli aficionados hanno cominciato a mormorare e ripetere nel momento stesso in cui l’animale rientrava nella porta del toril. 501 chili, il toro nero ancora vivo nonostante la morte che si supponeva certa il 16 settembre del 2012 alle 12 e 45, portava sul nero del suo mantello un nome che si fa fatica a pronunciare tanto è roboante e significativo: Ingrato.

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