La mia prima volta fu al tavolo Burladero. Ovviamente ordinai l’hamburguer di toro de lidia. Una delle ragazze di cui nel tempo avrei imparato la dedizione unica mi consigliò un vino che da lì in avanti è diventato un mio culto: Tetas de la Sacristana. Poi mangiando e bevendo e godendo capii che avevo trovato un posto unico, insostituibile. E non era solo la qualità ma era altro, perché ogni cosa sprigionava amore.
Non so quante volte io sia andato a mangiare all’Antigua Abacería de San Lorenzo nei miei quindici anni abbondanti di frequentazione. So che per me Siviglia senza non esiste. Appena progettavo un viaggio e il giorno di arrivo in città si avvicinava, nonostante io non sia un tipo portato alla programmazione, stabilivo senonaltro la prima sera da prenotare e spesso questa corrispondeva con la prima sera sivigliana. Chiamavo da Roma. A volte chiedevo un tavolo preciso, solo a volte però, visto che l’Abacería era quasi sempre piena e già trovare posto poteva rivelarsi operazione complicata (durante la Semana Santa sostanzialmente impossibile, se non con enorme anticipo).
Cene romantiche: al tavolo Burladero. Cene solitarie: dove voleva Ramón o sua moglie Mari Carmen. Cene con amici: al mio tavolo preferito, ossia quello nello stretto corridoio che porta ai bagni al piano terra. I bagni, ecco. Si potrebbe cominciare da lì. Perché anche nei locali meno interessanti e simposiali dell’Abacería ho sempre pensato che fosse possibile trovare l’anima del locale. Ossia quella cura, quella dedizione, quell’attaccamento a ogni minimo particolare in nome della tradizione profonda che hanno fatto di questi stretti spazi un monumento all’ospitalità.
Stretti spazi sì. Corridoi, porte, scale, stanzette, improvvisi pertugi. Un’antica costruzione sivigliana in tutto il suo splendore. Eppure pare che siano proprio le strettoie e gli spazi angusti, le scale, le uscite di sicurezza inesistenti a spingere alla chiusura che ormai dicono inesorabile. Le regole sono regole, le distanze si misurano. E chissenefrega della storia, del passato, delle tradizioni e soprattutto dell’amore.
Io non riesco a crederci. Non mi do pace. Non posso accettare che tutto vada via così. Che in nome di regolamenti standard l’amore venga spazzato via. L’amore non è standard. La passione non è catalogabile. Posti come l’Antigua Abacería de San Lorenzo sono rari in questi tempi di degrado in nome di stronzate chic social e televisive. Sono veri e propri templi che non solo andrebbero protetti, ma andrebbero sovvenzionati. E invece no. Via. Spazio a chi crea piatti in serie, piatti quadrati preferibilmente, con schizzi e fiorellini, piatti insipidi, niente sale, niente aglio, niente glutine, niente lattosio, elenco di allergeni, provenienza del cappero di vattelappesca e una montagna di idiozie. E soprattutto niente amore. Niente odori. Semmai esperienze olfattive in nome di una parola magica che non significa niente se non distruggere ma suona bene: destrutturare.
Io sto male di fronte alla chiusura di questo monumento del gusto, dell’estetica, dell’amore. Perché se non siete mai entrati nell’Abacería di Ramón e Mari Carmen non sapete cosa significa trovare la dedizione in ogni angolo del locale e una cura così appassionata che era capace di tracimare negli avventori come nei lavoratori. Mi sembra di aver capito che tutto è partito con le denunce di un vicino. E forse era inevitabile, perché – come diceva Platone duemilacinquecento anni fa – ciò che rende gli esseri umani incapaci di vivere la bellezza è solo l’invidia.
Ma nulla tiene adesso. Io non posso sopportare che le cose vadano in questo modo in tempi in cui la serie deve regnare, sì la serialità, lo stereotipo, la normalizzazione. Tempi che fanno tabula rasa di ciò che è complesso e ricco come il mondo di tori a cui ci dedichiamo e che in un luogo come l’Abacería de San Lorenzo era evidentemente uno sfondo scontato. Nessun toro alle pareti, nessun cartel, ma la cultura della complessità non ha bisogno di essere sbandierata. Così bastava mangiarli, semmai, i tori selvaggi che arrivavano in quarti nella cucina di Ramón. Così come bastava semmai parlare di Semana Santa per alludere a una ricerca spirituale che è l’anima della fiesta.
Ore e ore di ricerca, di discussioni, di passioni fra vini e morcilla, prosciutti divini, formaggi da svenimento, uova che facevano la grandezza della casa, assieme ai piatti sempre diversi, sempre sublimi. Ma ripeto: non era il gusto – davvero da estasi – a dominare. Era altro. Qualcosa che solo dopo molto tempo e molta fatica si può individuare come uno scintillio improvviso e fuggevole di verità, quell’effimero eterno che fa la grandezza del Mediterraneo.
Vogliono fare tabula rasa. Vi sia chiaro. Ovunque è lo stesso.
Mi trovo in Grecia, ora. Pochi giorni fa, in una via di Atene che amo molto, ho visto con i miei occhi operai al lavoro per distruggere enormi botti di una vecchia taverna, una delle ultime del centro. Erano botti di quasi due secoli. Ancora funzionanti. Ancora spillanti vino resinato di quelli che vanno giù e ti fanno sentire il canto delle cicale. Le hanno distrutte così. Verranno sostituite da un ristorantino elegante e vini in bottiglia.
Stamattina, in un’isola dell’Egeo, ho incontrato un vecchio di qui, un tipo particolare, molto propenso alle battute fulminanti. Una decina di anni fa credeva di avere il denaro per costruire case e farne stanze da dare in affitto. Poi i soldi finirono. Le case rimasero uno scheletro. Uno scheletro che nel frattempo aveva tolto l’aria e la vista alle case dei vicini. La rovina sua e degli altri deve averlo piegato. Quest’anno, però le case sono quasi pronte, anche se credo che non gli appartengano più. Ho cercato di domandarglielo. “Noi moriamo, le case restano” ha detto “Restano le mura, restano le macerie”. Volevo uscire da quella solennità da tragedia e capire qualcosa di più. “Ma le avete finite dunque?” “Sono loro che finiscono noi” ha detto e se n’è andato.