Il Trionfo della Morte

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Un mese fa ero a Palermo. Il sole allagava la città in un’improvvisa primavera. Era domenica e ogni cosa sembrava dolce e piena di futuro. La folla riempiva le sale del Museo Salinas per l’occasione adibite a luoghi d’incontro su temi antichi: le donne del mito e i loro amori. Mi aggiravo felice di tanto interesse quando sulle scale occupate da uomini e donne seduti alla meglio è comparsa una signora in stampelle, una signora di una certa età (come si dice ora), accompagnata dalla nipote. Che magnifica presenza! Camminava piena di nobiltà nonostante gli impacci fisici e c’era soltanto da ammirarla ma poiché chi riempiva le scale se la ritrovava alle spalle, mi sono sporto e li ho sollecitati indicandola. Era necessario farla passare e il gesto mi sembrava sufficiente. Nessuno si è mosso. Allora l’ho spiegato a parole e la risposta è stata unanime: abbiamo preso il posto da mezz’ora abbondante e ora non lo lasciamo. Non dovete lasciarlo, dovete semplicemente lasciar spazio per le scale. No, non ci spostiamo. In un attimo tutta la dolcezza della domenica di luce cristallina e anticipo primaverile si è trasformata in disgusto. Spostatevi immediatamente e lasciate passare. La signora è scesa nella sala dove non c’è stato uno fra le centinaia di colti spettatori fra giovani e meno giovani che le abbia offerto un posto. Sono debole di fronte a queste scene. Ho aspettato pochi minuti e me ne sono andato. Cosa ci sta succedendo per arrivare a un livello tale di disumanità anche nelle faccende più stupide, nelle giornate più perfette, nei momenti di più evidente fortuna?

Me ne sono corso altrove, passando attraverso la Vucciria verso la Kalsa, fino al portone di Palazzo Abatellis. Volevo mettermi davanti a quell’opera straordinaria che è il Trionfo della Morte, un affresco anonimo che risale secondo gli esperti al 1446. Staccato dalle mura di Palazzo Sclafani nel 1943 per paura che i bombardamenti degli Alleati potessero distruggerlo, supera i sei metri per sei metri e mezzo di grandezza e sconcerta chi lo osservi spingendo alle riflessioni più estreme, a prescindere dalla competenza e dalla comprensione. Del resto, comprendere ciò che è raccontato dal pennello dell’anonimo non è difficile. L’affresco è dominato dalla morte che irrompe sulla scena cavalcando un orribile destriero ossuto e scagliando frecce sui vivi ignari della loro finitezza. Fra i corpi senza vita, soprattutto prelati, nobili e quel mondo di vita scintillante che domina anche la parte destra dell’affresco fra chi ancora non sa cosa sta per accadere e continua a gingillarsi guardandosi le mani, le unghie, il piccolo lembo di pelle all’estremità di un dito. Dalla parte sinistra dell’affresco invece si affacciano coloro i quali per necessità materiali e scarsità di risorse conoscono bene la morte al punto forse da invocarla come fine di ogni male. Fra di essi il pittore si autoritrae assieme a un assistente. C’è sempre qualcuno che i conti con l’idea della morte li fa, anche a prescindere dalla sua agiatezza.

Pensavo che nel nostro tempo quel che manca è un confronto sano con l’idea stessa della morte. La morte è un tabù, ormai. Al punto che il morituro è preferibilmente accompagnato in strutture ovattate dove regna una impossibile pace, suffragata dal nome delle strutture stesse, generalmente dette Villa e seguite da termini indicanti una dimensione di incongrua tranquillità. Il morto non si cura più nelle case, non si piange e non si osserva e non prende luce come scriveva in maniera sublime García Lorca nel suo Duende. Il corpo non deve invecchiare e non deve mostrare la fine che incombe. E l’idea che siamo caratterizzati da una natura finita e che, proprio come siamo nati, dovremo morire non rientra fra le questioni con cui confrontarsi, se non quando sogniamo cure avveniristiche che assicurino una vecchiaia quasi eterna o deliriamo di clonazione e chissà quale altro rimedio contro la fine. L’idea della morte non è una buona idea. E la morte è meglio non vederla. In questa regressione infantile verso una dimensione di infinita giovinezza forse alligna il male che ci spinge a comportamenti così inadeguati. Così lontani dalla più semplice vicinanza umana, dalla comprensione dell’età altrui e dei guai fisici che tutti prima o poi dobbiamo affrontare. Così estranei alla più semplice comprensione che ogni cosa stiamo vivendo è piena di luce, anche a prescindere dalla luce brillante caduca e contingente della domenica 2 febbraio a Palermo.

Poi è arrivato il virus. E tutto è stato sovvertito in un istante. In pochi giorni, nonostante i pericoli non siano mai stati effettivamente chiariti, abbiamo dovuto abituarci alla possibile perdita delle più elementari libertà che ci parevano conquistate per sempre. Girare per strada, andare al bar, entrare in un cinema, assistere a uno spettacolo teatrale, a un concerto.  Viaggiare tranquillamente. Prendere un aereo. Attraversare quei confini che negli ultimi anni ci siamo industriati a rendere forti nei confronti di chi affrontava qualsiasi pericolo pur di superarli. Innumerevoli le novità che sono apparse intollerabili e che ci hanno spinto a risposte spesso isteriche e incongrue. A discussioni e lamenti. A dimenarci fra il terrore e il disincanto. È ancora presto per riflettere con serietà e scrupolo sui tempi che stiamo vivendo. Ma è certo che un passaggio importante stiamo valicando e che nulla, presumibilmente, dovrebbe mai essere come prima. Perché le reazioni di questi giorni hanno dimostrato che l’idea della morte si era persa e che confrontarsi con essa non è semplice. Eppure è necessario.

Forse la caccia all’untore che oggi chiamiamo diffusore non ci aiuterà sulla strada dei legami solidali che in genere rinascono quando siamo costretti a vivere quei momenti difficili determinati da agenti esterni – che essi siano catastrofi naturali, guerre o malattie. Forse ci chiuderemo ancora di più in quei confini di cui oggi sentiamo improvvisamente la forza deleteria perché ci hanno recluso in prigioni inaspettate. Forse non riusciremo a capire che c’è altro al di là delle vite opulente a cui ci eravamo abituati e che cambiare modello di futuro è indispensabile. Ma che con l’idea della morte sia necessario fare i conti? Che quei riti apparentemente arcaici che mettono al centro la morte costituiscano una via determinante al nostro personale progresso individuale e sociale? Che quei riti considerati fatui e sorpassati rappresentino in senso metastorico una strada ricca e piena di futuro per la comprensione del nostro posto del mondo? Che l’infantilismo animalista, al pari dei deliri no vax, debba essere superato una volta per tutte?

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Matteo Nucci (Roma, 1970) è scrittore, oltre che aficionado. Negli anni Novanta a El Espinar, durante una notte interminabile, vide vaquillas correre nella plaza. Era l'inizio della febbre tauromachica

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