Il terzo giorno di Semana Santa, fra pioggia, lacrime, sudore, vino e sangue, illumina finalmente uno dei segreti più sconcertanti di questa festa con cui Sevilla s’immerge in un turbine di momenti estatici. Religione e arte, festa pagana e sacrificio tauromachico, alcol e convivio. Tutto accade nel mese solenne in cui la città trema fino alla fine della Feria de Abril. Il reportage che pubblichiamo compie un lustro. Ma poco importa. A Sevilla infatti solo ciò che è effimero resta per sempre.
MARTEDÍ SANTO. CUORE DEI MISTERI
Il mistero mi sembra improvvisamente chiaro il martedì mattina, nella chiesa Omnium Sanctorum, su calle Feria, una delle strade di Sevilla che amo di più, e non solo perché qui nacque il torero che ha cambiato la corrida moderna, Juan Belmonte, prima di spostarsi a vivere la sua infanzia di povertà a Triana, oltre il Guadalquivir. Calle Feria è ancora la Sevilla popolare, per quanto possa esserlo oggi una via del centro storico, anzi è una specie di Sevilla eterna e proprio per questo, per questa sua resistenza alla modernità, mi attrae e non mi lascia scampo. Il sole ha rotto un cielo cupo, ma tutte le previsioni annunciano pioggia e la confraternita di Los Javieres è in subbuglio. In questo momento, anche i “fratelli” delle altre sette hermandades che dovrebbero sfilare in città si riuniscono per decidere le sorti della processione a cui lavorano da trecentocinquanta giorni. In chiesa, uno dei più anziani scuote il capo e alza gli occhi verso un cielo immaginario. Mi racconta che questo, da tre anni, è un giorno stregato. La pioggia tortura, sconvolge, e annienta il martedì santo. Tanto che le confraternite si sono viste negare ogni volta la possibilità di portare in giro i loro pasos. Così, come per consolarsi, mi fa da guida a conoscere i misteri che nella lingua della Semana Santa sarebbero i momenti raccontati dai due pasos, le opere d’arte e l’indicibile che esse tentano di rappresentare. “I misteri del Cristo e della Vergine. El Crucificado prima di tutto” mormora, citando tal Manuel Calvo, l’artista che realizzò il Cristo morente sulla croce in stile neobarocco. Snocciola i nomi di gente che ai suoi occhi dovrebbe essere notissima ovunque. Barbero, per esempio, che rifinì le miniature di angeli disposte tutto attorno alla base del “paso” . Poi Ramòn Leòn che vent’anni fa rifece la corona della Vergine. Un certo Paleteiro che lui ricorda benissimo all’opera sui ricami in oro del lungo manto della Dolorosa. Cerco di seguire ogni cosa e mentre parla a un certo punto s’illumina e dice “perché sono questi particolari, queste miniature, questi tessuti, tutto quel che vedi qui, ragazzo mio, a rendere vivi i Misteri”.
Eccolo qui, allora, il segreto di ciò su cui mi ero messo in cerca. Ossia il mistero degli occhi scintillanti e delle lacrime e della commozione e degli sguardi attoniti che seguono i pasos in questi giorni di Sevilla. Improvvisamente mi pare tutto chiaro. Ecco cosa è capitato domenica, quando ho visto il primo Cristo uscire dalla Chiesa come se fosse una specie di parto e stesse tornando in vita, abbandonando la stretta porta per splendere nella luce del sole, mentre dal balcone un uomo ben vestito cantava la sua saeta, il flamenco apparentemente improvvisato, un canto di rinascita, di vita sulla morte. Ecco cosa è successo la notte quando ho visto il paso dell’Estrella muoversi di fronte alla cappella del Baratillo in calle Adriano. Era un movimento che assecondava perfettamente la musica. Tutto l’immenso palio sembrava ondeggiare a piccoli passi verso l’entrata della cappella dove i toreri vanno a pregare prima di sfidare i loro tori nell’arena. Come se il Cristo fosse vivo e tutto insieme alla sua croce si facesse avanti verso la Vergine immobile dentro la cappella e circondata da enormi candele accese. Come se il paso avesse paura di andare incontro alla Vergine eppoi, tutto insieme, quando la musica è esplosa, corresse a grandi passi verso la cappella per poi improvvisamente fermarsi. Nuovi ondeggiamenti, passi indietro, piccoli passi indietro, musica lieve, eppoi di nuovo un’onda di musica e uno slancio esplosivo del paso verso l’entrata del Baratillo. Ecco cosa è stato il lunedì santo, quando ho visto sbucare dall’angolo di Placentines, una strada strettissima poco dietro al cattedrale, il paso della Vergine della Confraternita che prende il nome dal bacio di Giuda. La musica era una specie di marcia in lacrime intitolata Al compas la cera llora: batteva su un lamento straziante e sembrava esaltare i piccoli movimenti del paso nel suo tentativo di sopravvivere alla strettoia, poi batteva ritmi di improvvisa vitalità e rinascita come per assecondare trionfalmente l’uscita della Vergine oltre l’angolo fino a slanciarsi in un grido di vittoria sulla via più larga a grandi passi pieni di esultanza e gloria.
Il mistero è qui. La vita che vince la morte. La vita di questi enormi teatri che rappresentano scene di dolore e morte e che si muovono come corpi misteriosi per la città, corpi che hanno paura, combattono la disperazione, s’infilano in pertugi impossibili per avere la meglio di ogni ostacolo, splendere alla luce del sole, scintillare alla luce delle candele, entusiasmarsi di una rinascita inspiegabile, esultare della propria vittoria impossibile. Grandi passi, un cammino trionfale, il trionfo che nessun mortale potrebbe mai credere possibile, se non nella vita che è qui, in questo tempo, in queste strade, in questo mondo terreno. Nel gin tonic, nella birra spillata ovunque, nelle mandorle salate. Qui è la resurrezione. Nel passare da una parte all’altra della città, sfidando la fine. A volte, celebrando questa rinascita con austerità, silenzio, cupezza. A volte quasi ballando, quasi gridando. Per questo si festeggia. Per questo la festa non può avere fine. E per questo, più tardi, quando scrosci di acquazzoni interminabili sommergono Sevilla, uomini e donne delle confraternite, si abbracciano piangenti. Sono lacrime di morte. Perché i loro pasos dovranno aspettare un altro anno per rivivere davvero. Nell’oscurità sepolcrale delle chiese essi continueranno a lasciarsi ammirare, accogliendo i visitatori per mostrare una bellezza artistica e chiamare alla contemplazione e la preghiera. Ma resteranno immobili, abbandonati a una plasticità priva di corpo, priva di carne, spenta, morta. Un’immobilità sacra ma senza la sacralità della vita. E infatti, mentre giro attorno alla bellezza dei misteri di un’altra delle confraternite che oggi non hanno potuto attraversare Sevilla, la Santa Cruz, mi accorgo che l’incenso delle chiese sommerge anche l’odore dei mille fiori colti per coronarli e capisco definitivamente quello di cui avevo avuto solo una fugace impressione: l’aspetto dei pasos dentro alle loro chiese è quello classico di una sacralità funeraria.
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Le puntate precedenti:
1. Vigilia. Un venerdì qualsiasi nel nostro mondo
2. Domingo de Ramos. El sol es el mejor torero
Le puntate seguenti:
4. Venerdì Santo. Azahar all’alba
5. Pasqua. I costaleros di Achille
6. Corrida di Pasqua. Reincarnazione
7. Trasformazione. Il nazareno di Chaves Nogales